Caro direttore,

“Non mi resta che suicidarmi”: aprire un quotidiano e leggere una frase del genere pronunciata da tuo cognato, fa un certo effetto. Un brutto effetto. Le classiche cose che vorresti non leggere mai. Se il cognato in questione è detenuto da tre mesi nel carcere di San Vittore, è ovvio che ti preoccupi anche. Conosco abbastanza bene, da trent’anni circa, Antonio Simone (mio cognato, appunto) per sapere che non direbbe mai una cosa del genere in condizioni normali. Il problema è che essere detenuti da tre mesi con la prospettiva di passarcene altrettanti in stato di “carcerazione preventiva” non è una cosa normale.



Nella lettera in cui Simone dice queste cose, ripresa da molti organi di stampa e diventata oggetto di una interrogazione parlamentare, parla di questa disperazione che la carcerazione preventiva gli sta procurando:  “Sono in carcere da tre mesi perché per i pm non dico «tutto», cioè non confermo le loro ipotesi accusatorie. Contro la legge, con un uso strumentale e folle di disposizioni reiterate solo grazie all’insipienza di un ceto politico e di un sistema giudiziario (…) sono istigato continuamente a dire il falso (cioè che ho corrotto qualcuno) e istigato al tentato suicidio come unica possibilità di risposta al sequestro della mia persona”. Ci sarà un motivo per cui si fa uso della carcerazione preventiva, ma a questo punto importa poco. Parole come “suicidio” fanno passare la voglia di discutere.



Certo, qualcuno dice: è facile lamentarsi di strumenti come la carcerazione preventiva e delle condizioni in cui i carcerati sono tenuti (nella cella dove è rinchiuso mio cognato sono in sei; per stare in piedi devono fare a turno, perché a San Vittore si è da tempo superato il limite consentito di persone che il carcere può contenere) adesso che detenuto lo sei tu. Potevi farlo prima che le condizioni schifose delle carceri italiane si conoscono da decenni. Non lo so, so poche cose in realtà, ma so che nella vita si esprime un giudizio quando si impatta sulla realtà. Trovo naturale che mio cognato si lamenti delle condizioni subumane (un maiale ha diritto a sette metri quadri di spazio secondo le disposizioni europee, a San Vittore hanno un metro quadro a testa, dunque i detenuti per lo Stato italiano valgono meno dei maiali) in cui si trova.



Una volta mio cognato, dopo una lite, mi disse: guarda la realtà, smettila di fare ipotesi e congetture. Stai davanti alla realtà. Anche questa volta mio cognato mi sta dicendo di guardare la realtà. Da quando è dentro non gli ho scritto una riga, come hanno fatto in migliaia: non mi sentivo adeguato. Sono uno che scrive di rock’n’roll, io. Ne approfitto adesso, allora, se mai leggerà queste righe. Non ne so niente delle accuse che gli fanno, mio cognato è sempre stato uno che parla poco da buon meridionale. Ricordo un viaggio insieme a lui una delle prime volte che ebbi modo di passare del tempo con lui in macchina. Dovevamo andare in Svizzera a trovare sua madre ricoverata in una casa di cura. Un viaggio di quasi due ore ad andare e due ore a tornare. Non ci scambiammo mai una parola per quattro ore, solo “siamo arrivati” e “vuoi un caffò?”: io intimidito dal personaggio che conoscevo di fama, lui perché più o meno è sempre così.

Non lo conosco poi molto in realtà, ma so ad esempio che se non fosse stata per la sua generosità mio fratello che soffre di malattia mentale grave da trent’anni, vista l’assistenza inesistente in Italia da parte dello Stato italiano che lascia questi malati completamente sulle spalle delle famiglie, oggi invece che andare a trovare mio fratello in una bella casa di cura andrei a trovarlo in qualche tunnel della Stazione Centrale dove si rifugiano i pazzi le cui famiglie non hanno abbastanza soldi per assisterli. Non lo conosco granché, ma so che quando c’è bisogno lui c’è sempre stato, e allora mi domando dove sono io adesso per lui. Credo che anche questa sia la realtà.

Quando morì mio padre, ad esempio, saputa la notizia a notte fonda, mi portò fino in Liguria da Milano per vederlo una ultima volta. Tornammo verso le cinque del mattino, aveva guidato sempre lui. E’ capace di farsi dei pisolini mentre guida senza andare a schiantarsi, lo giuro, gliel’ho visto fare anche se avrei preferito ci fossimo fermati. Però non mi ha mai aiutato a trovare lavoro, io che ho un record di perdita di posti di lavoro mica male. Qualche amico mi ha preso in giro per questo. Invece sono fiero che non lo abbia fatto. Io fatico, ma la dignità di entrambi ne guadagna. Però mi ha fatto dei bei regali, come quella volta che mi diede la sua tessera con il posto in tribuna d’onore a San Siro a cui aveva diritto come assessore regionale. Era il giorno fantastico della vittoria dello scudetto della squadra per cui entrambi tifiamo (l’Inter ovviamente), anno di grazia 1988/89. 

Seduto a fianco avevo il futuro direttore del tg di La7 Enrico Mentana; due file più indietro l’allora presidente Pellegrini. Dietro di me l’avvocato Prisco, che quando Lothar Mattheus segnò il gol decisivo mentre tutti si abbracciavano, nessuno se lo filava. Neanche a me si filava nessuno, ovviamente, così fu facile abbracciarci calorosamente io e Prisco, al grido: Avvocato siamo campioni! Cose belle, in fondo anche questa è realtà. E allora io lo conosco per queste cose, Antonio Simone, e conosco mio fratello, e conosco mia sorella, e conosco i loro splendidi e coraggiosi figli – tutti di una dignità straordinaria nel loro dolore – e per questo ho scritto questa lettera ad Antonio Simone. Perché mi ha fatto conoscere il dramma e l’ingiustizia palese della carcerazione preventiva vivendolo nella sua carne e il dramma di migliaia di carcerati in tutta Italia che lo Stato tratta peggio dei maiali. 

Antonio Simone, che non ha potuto neanche andare al battesimo di sua nipote – è diventato nonno poco prima che lo portassero dentro – perché era dentro a fare carcerazione preventiva. Così, Antonio non fare scemate, spero tu possa uscire presto o almeno venir giudicato presto. Grazie per avermi fatto guardare la realtà una volta di più.