Una settimana di tuor de force per avere i pareri dei consigli di zona, non vincolanti ma necessari per iniziare la discussione in Consiglio comunale. Con sedute in seconda convocazione, a garantire un numero legale minore nel caso qualche componente cattolico degli schieramenti di sinistra che governano i parlamentini avesse avuto mal di pancia. E così oggi approda a Palazzo Marino la delibera istitutiva il registro delle unioni civili. Con una fretta paragonabile solo a quella delle manovre estive del governo per fare fronte allo spread e al rischio di speculazione finanziaria. Non credo che faccia piacere agli attivisti gay essere trattati così. “Di fronte alla discriminazione” si dirà “ogni provvedimento ha carattere d’urgenza”. Già, la discriminazione. Ma occorre intendersi su questo termine. Le leggi razziali del ’38 erano discriminanti. Oggi non siamo di fronte ad alcun provvedimento da cancellare per ristabilire il principio della uguale dignità delle persone di fronte alla legge.



Nel caso del registro delle unioni civili, pensato a detta di Majorino esclusivamente per sensibilizzare il legislatore nazionale al tema dell’equiparazione delle convivenze tra omosessuali al matrimonio, si va piuttosto contro un principio giuridico, secondo il quale si trattano in modo differente situazioni differenti. La discriminazione, dunque, c’entra ben poco. Eppure non è l’unica debolezza che presenta la delibera istitutiva il registro delle unioni civili. Ce n’è un’altra. Siamo di fronte ad un provvedimento che parla di “diritti”, ma mai di “doveri”. La coppia che si iscrive al registro ha diritto ad accedere tout court ad una serie di servizi (politica che non esiste in modo organico nemmeno nei confronti della famiglia). Tuttavia non si capisce a quali doveri rispondano i due componenti l’unione civile. Nel contrarre matrimonio il Codice civile impegna entrambi i coniugi «alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione», oltre che «a contribuire ai bisogni della famiglia» (art. 143); a concordare «tra loro l’indirizzo della vita familiare» (144); a «mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità» (147). Nel caso del registro proposto dalla maggioranza di Pisapia non è previsto nulla di tutto ciò. E non può nemmeno essere previsto, perché – come recita la sentenza 138 del 2010 della Corte costituzionale – finché il Parlamento non interviene «nei tempi, nei modi e nei limiti previsti dalla legge» quella convivenza è sprovvista dei «connessi diritti e doveri». Ciò a dimostrazione dell’inutilità dell’atto amministrativo che gli arancioni si apprestano a votare, purtroppo con il sostegno di settori dell’opposizione.



D’altra parte il provvedimento nasconde la solita logica statalista della sinistra. Come leggere altrimenti il richiamo pretestuoso al diritto alla vita privata, alla privacy familiare, cui fa riferimento la delibera consiliare, citando strumentalmente l’art. 8 della Convenzione europea? Quello che in tutte le Carte costituzionali e in tutte le Convenzioni internazionali, sorte dopo l’esperienza drammatica dei totalitarismi del Novecento, era concepito come limite all’invadenza dello Stato nella sfera esistenziale di ciascuno, oggi paradossalmente diventa il pretesto per un suo intervento a gamba tesa in una sfera dentro la quale non dispone di nulla. Con il risultato che chi detiene il potere finisce per distribuire patenti “di famiglia” a destra e a manca. Insomma, quello del riconoscimento giuridico delle unioni di fatto è l’esempio di uno statalismo di ritorno, dal quale si deve guardare bene chiunque si dica liberale.

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