Non ci fosse stata quella manciata di annunci sulla pagina dei necrologi del Corriere della Sera, la notizia ci sarebbe sfuggita del tutto: Angelo Mangiarotti, l’ultimo dei protagonisti della grande scuola milanese di architettura è morto il 2 luglio all’età di 91 anni. Sulle pagine dei quotidiani la notizia non è stata ritenuta degna neppure di una breve. E pensare che quegli stessi quotidiani sono sempre pronti a rincorrere anche il semplice sbadiglio di un’archistar dedicando articolesse e paginate. Mangiarotti faceva parte di un altro mondo e di un altro modo di intendere l’architettura: dove valeva l’attenzione al contesto e alle funzioni di ciò che si costruiva, dove l’innovazione non aveva fini mediatici, ma sempre molto concreti. Innovare significava aggiornare le forme rendendole più adatte alle necessità e alle esigenze di chi le avrebbe vissute.



Mangiarotti in vita si era conquistato le pagine dei giornali per architetture molto coraggiose e anche discusse, come la Chiesa di Vetro di Baranzate, alle porte di Milano, realizzata in occasione della grande campagna lanciata dall’arcivescovo Montini per rispondere ai nuovi bisogni di chiese di una città cresciuta enormemente con l’immigrazione. I tradizionalisti avevano storto il naso, invece il futuro Paolo VI aveva difeso la soluzione “moderna” scelta dall’architetto (che aveva realizzato la chiesa insieme a Bruno Morassutti). Ma Mangiarotti, insieme a tutti gli altri esponenti della scuola milanese, è soprattutto sinonimo di “casa”.



Sono architetti di “case” nel senso che come pochi altri hanno saputo aggiornarne i codici, adattandoli ai contesti di una città moderna, restando fedeli al senso e alle funzioni originarie. Se c’è qualcosa di cui Milano dovrebbe andare orgogliosa sono proprio le case che questi grandi, a partire dagli anni 30 del Novecento, hanno disseminato per la città. La cosa più complicata per un architetto è fare una cosa normale. È in fondo più facile costruire una villa per un committente facoltoso per quanto possa essere esigente, che costruire un condominio che deve fare rigorosamente i conti con il contesto, con la necessità di risparmiare gli spazi e che per definizione (vedi l’etimolgia della parola “appartamento”) ingabbia gli inquilini. A Milano Angelo Mangiarotti aveva costruito agli inizi degli anni 60 (sempre in tandem con Morassutti) una casa stupenda in via Quadronno, dove aveva anche il suo studio: un edificio arioso, dal perimetro tutto ritmato, con interni pieni di luce, con materiali moderni alternati ad antichi (il legno). Un noto sito di architettura non italiano presentando il condominio di via Quadronno  ha messo questo titolo: “living with Mangiarotti”. 



Infatti sono case, quelle costruite nella Milano di quegli anni, in cui si vive bene. Concepite non per dar gloria a chi le ha progettate ma per far star bene chi ci deve abitare. Quante sono le case costruite così a Milano? Un campionario così vasto da comporre un grande itinerario dentro una città pensata in forma umana: dalla casa della Meridiana di Giuseppe De Finetti a poche centinaia di metri da via Quadronno (anni 30), passando per la stupenda Casa Rasini di Gio Ponti in Corso Venezia o per il capolavoro di Terragni-Lingeri in Corso Sempione. E poi nel dopoguerra, Magistretti, Gardella, Figini e Pollini, i Bbpr, Franco Albini, Caccia Dominioni, l’Aldo Rossi del Gallaratese… È una geografia di una città che rinnovandosi ha saputo concepirsi pienamente civile. Oggi questa cultura è stata eclissata dalla cultura vanitosa delle archistar, fatta di colpi di teatro e di improvvisazioni: mi piacerebbe davvero capire come si vivrà nella case di Liebskind e di Zaha Hadid a Citylife, tutte curve e linee obliquee… Guardare alla cultura della Milano che Mangiarotti ha interpretato per tutta la vita non significa gettare un nostalgico sguardo indietro, ma capire come può esser ancora bella una città moderna.