Le cronache milanesi raccontano di un ragazzo cingalese di vent’anni che, in un eccesso d’ira, colpisce la giovane madre – 41 anni appena ­- rimproverandole di “vestire all’occidentale”. L’episodio viene subito etichettato come segnale di “difficoltà d’integrazione” da parte di un ragazzo di seconda generazione. Interpretazione realistica oppure affrettata e superficiale lettura di un episodio che trae origine da tutt’altre difficoltà? IlSussidiario.net lo ha chiesto a Flavio Merlo, sociologo all’università Cattolica di Milano e ricercatore dell’Osservatorio regionale sull’Esclusione sociale.



Da studioso dei problemi legati all’esclusione sociale, come interpreta l’episodio in questione?
Mi sembra che la lettura fatta sia un po’ forzata. Non ci sono elementi per farne una questione “etnica” e di integrazione. L’episodio va inquadrato: si sta parlando di un ragazzo di 20 anni nato e cresciuto in Italia con genitori giovani, che quindi sono arrivati nel nostro Paese giovani e che sono diventati adulti e genitori nel nostro contesto culturale.



Quindi vorrebbe dire che l’imprinting dovrebbe essere più italiano, occidentale che cingalese…
Guardi, la comunità cingalese non è certo una di quelle che spicca per integralismo… Ma quello che si può dedurre dalle notizie diffuse, dal racconto dei vicini e della stessa madre, è che il ragazzo avesse già manifestato intemperanze nei confronti della donna: parlerei quindi più di sofferenza psicologica del ragazzo e di difficoltà di rapporto intergenerazionale piuttosto che di difficile integrazione.

È una sofferenza che può essere aggravata dalla coscienza di avere le proprie radici in una cultura diversa?
La differenza tra la propria origine e la realtà in cui vivono la sentono tutti i ragazzi, i giovani di seconda generazione, ma c’è chi la vive come un limite, che genera quindi sofferenza, e chi la vive come risorsa, inserendosi così nella società con una marcia in più. Ma questo avviene non solo tra gli stranieri, ma anche tra gli stessi italiani. Ci sono diversi studi sociologici sulle periferie milanesi che evidenziano questo.



Essere figli di due culture può quindi essere una zavorra o un trampolino. Cosa influenza la scelta?

Molti sono i fattori in gioco. Innanzitutto, il livello culturale e la scolarizzazione. Un basso livello d’istruzione, un livello di vita ai margini certo non aiutano a riconoscere e a valorizzare le proprie risorse. Inoltre gioca anche quanto si frequenti in maniera esclusiva la propria comunità etnica. Quando si è disorientati, per difendersi scatta il meccanismo del mimetismo, si tende a rinchiudersi tra i propri simili. Non è detto che abbia visto nell’ambito della comunità atteggiamenti differenti, magari tra le mamme dei suoi amici, dei suoi coetanei…

Il padre ha preso le difese della moglie, schierandosi contro il figlio…
Questo è un ulteriore elemento che sostiene la presenza di una problematica tutta interna al nucleo familiare, al rapporto tra genitori e figlio. La questione “integrazione” qui è marginale, e rischia di non aiutare nell’affronto del problema che certamente marginale non è. Ma c’è un’altra osservazione da fare: i luoghi di socializzazione che in questi vent’anni il ragazzo ha frequentato, ad esempio la scuola, cosa hanno fatto per aiutare a superare questa sofferenza?

In sintesi, non tutti i problemi delle persone immigrate possono essere riconducibili a quello dell’integrazione?
Ovvio che no. Il problema dell’integrazione c’è, non va sottovalutato, ma in questa vicenda gli attori non hanno le caratteristiche per entrare in quella sceneggiatura.

(Daniela Romanello)