Il cardinale Angelo Maria Martini arruolato nel partito dell’eutanasia? I principali media nazionali si sono affrettati a riportare con enfasi, ancor prima del suo trapasso, che il cardinale «ha rifiutato l’accanimento terapeutico». Per chi ha un minimo di dimestichezza con le questioni che agitano il dibattito sul fine vita, il senso – non dichiarato – era chiaro: il cardinale, cari cattolici che volevate tenere in vita la povera Eluana ancora non si sa per quanto tempo, ha scelto la morte. C’è una Chiesa – e quale Chiesa! – che guarda avanti, che ritiene che l’uomo non possa ridursi ad un vegetale inespressivo alle mercè di pochi astratti principi, che rispetta la vita sì, ma quando è ora di dire basta, ha finalmente pietà di sé. Sarebbe questo l’ultimo grande «messaggio di civiltà» del cardinal Martini, addirittura la sua ultima «lezione teologica». IlSussidiario.net ha chiesto l’opinione di Roberto Colombo, genetista e docente nell’Università Cattolica di Roma. Per il quale chi enfatizza il rifiuto da parte del cardinal Martini dell’accanimento terapeutico sfonda una porta aperta. «Non facciamo confusione. In Martini non c’è stata nessuna opzione sia pure lontanamente eutanasica. Il rifiuto dell’accanimento terapeutico è un’altra cosa».
Le due cose dunque non sono paragonabili. Perché?
Il Cardinale Martini soffriva da circa dieci anni della malattia di Parkinson, una patologia neuro-degenerativa e progressiva caratterizzata, nelle sue utime fasi, da alcune periodiche crisi che si ripetono e nel tempo diventano più frequenti e intense. Come ha dichiarato il suo medico, il professor Gianni Pezzoli, c’è stata un ultima crisi, particolarmente grave, iniziata a metà agosto. Da quel momento il Cardinale non è stato più in grado di deglutire né cibi solidi né liquidi. È però rimasto lucido sino alla fine, in grado di prendere delle decisioni consapevoli rispetto ai trattamenti che erano stati proposti.
Martini ha rifiutato l’alimentazione artificiale: niente sondino.
Sì, ma chiediamoci: in quale contesto si colloca questa sua decisione? Essendo stato informato dell’avvicinarsi della sua morte – si trattava di una crisi prodromica rispetto all’epilogo della sua vita – ha deciso di non farsi inserire nessun tipo di sondino per la nutrizione enterale, accettando il termine della sua vita nel modo che il Signore gli stava prospettando. Quindi ha rifiutato un “accanimento terapeutico”, considerando questo intervento medico inutile e particolarmente gravoso per la sua condizione fisica e spirituale.
Non è stata, la sua, una forma di eutanasia?
No. Il Cardinale era consapevole che gli restava poco tempo da vivere e ha preferito trascorrerlo senza questi presidi sanitari non ordinari, che sentiva particolarmente onerosi o non proporzionati alla situazione in cui versava. L’elemento essenziale, ripeto, è che Martini si trovava in prossimità della morte, sopravvenuta circa due settimane dopo l’inizio di una crisi che non gli ha più permesso di ingerire per vie naturali cibo e acqua. Questo non ha impedito che gli venissero praticati tutti i vari tipi di cure necessarie e appropriate, compresa la somministrazione di liquidi per via endovenosa.
Quindi, è da escludere qualsiasi tipo di paragone con pazienti come Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro?
Assolutamente sì, perchè nel caso di Eluana Englaro la ragazza si trovava in stato vegetativo persistente da diciassette anni ma non era affatto in prossimità della morte, né si avvicinava all’agonia. Era in condizioni stazionarie. Avrebbe continuato a vivere, anche se non sappiamo dire per quanto, ma sicuramente ancora per diversi anni se non le fosse stata interrotta la somministrazione del cibo. Il suo era uno stato cronico, non acuto come quello in cui si trovava il Cardinal Martini. Lo stato vegetativo persistente è una condizione clinica completamente diversa dalle fasi terminali della malattia di Parkinson.
Welby però ha chiesto che gli venisse tolto il respiratore, come Martini ha chiesto di non essere tenuto in vita a tutti i costi.
Piergiorgio Welby era affeto da distrofia muscolare di Becker, una malattia a progressione lenta che l’ha colpito quando aveva sedici anni. Ha fatto 45 anni di malattia prima che gli venisse tolto il respiratore. È una delle forme di distrofia muscolare a progressione più lenta e variabile e quindi è una malattia con la quale i pazienti possono convivere per numerosi anni. Quando chiese che gli venisse tolto il respiratore non si trovava affatto in imminente pericolo di vita, come si suol dire, ma in una condizione stazionaria resa gravosa dagli effetti di alcuni farmaci che continuava a prendere. Tuttavia, non era in prossimità della morte. La scelta di Welby è stata quella di darsi volontariamente la morte perché non voleva più vivere in quelle condizioni, e non la richiesta di non praticargli dei trattamenti perché accettava il fatto che la morte ormai era per lui prossima e ineludibile, come nel caso del Cardinale Martini.
Se quello che lei sta dicendo è vero, allora non c’è nulla nelle decisioni di Martini che lo collochi al di fuori o «in avanti» rispetto alla dottrina cattolica sul fine vita.
Assolutamente no. Egli si è attenuto in tutto e sino alla fine a quanto la dottrina cattolica insegna, e cioè che è lecito rifiutare l’accanimento terapeutico quando si è giunti in prossimità della morte e quando si intende accettarla umilmente come la volontà di Dio, nella certezza della vita eterna. Come sappiamo, il Cardinale si è sottoposto liberamente e docilmente alle terapie appropriate durante tutti gli anni della sua malattia: non ha mai rifiutato le cure che gli venivano proposte. Anzi, consapevolmente le ha scelte insieme al proprio medico curante, e mai ha pensato di rifiutarle quando il Parkinson era ancora in fase progressiva, lontano dal suo esito mortale. Con la sua stessa malattia e sofferenza, più che con le parole, l’Arcivescovo emerito di Milano è stato testimone credibile della verità antropologica ed etica di quanto il Magistero cattolico insegna e della praticabilità e convenienza per l’uomo di questo insegnamento. Un autentico maestro di vita e di morte.
(Federico Ferraù)