“Ci rincresce e ci addolora”. Sono le parole della lettera di Julian Carron che possono forse richiedere un commento da parte di chi ha assistito, sempre con interesse aperto, all’azione di forte rilievo svolta da Comunione e Liberazione nella Chiesa ambrosiana. E’ stata ed e’ una storia particolare, parte della piu’ vasta, complessa e talora problematica vicenda dei Movimenti nella Chiesa post-conciliare nella quale si riflettono le ragioni e i profili di tante difficoltà attuali e che, d’altra parte, incorpora le linee del disegno necessario per tracciare le vie d’uscita.
Le due grandi personalità, Don Giussani e il Cardinale Martini, protagonisti di quella storia appartenevano a mondi diversi. Avevano in comune quello che conta di più, la fede profonda, salda, in Cristo e la fedeltaà senza ombre alla Chiesa e a chi la guida. Ma per il resto le differenze erano tante e le proposte erano differenti. A mio giudizio, tutto ciò è difficilmente contestabile. Non condivido invece l’abitudine a ridurre quelle differenze alla narrazione di un conflitto. Non perchè incomprensioni e attriti, anche di rilievo, non si fossero manifestati, ma perchè limitarsi al loro ricordo è insufficiente. Le due esperienze hanno prodotto una grande ricchezza spirituale, morale e sociale che ci è stata lasciata in eredità e che non dovremmo disperdere. Sono del parere che occorra ripercorrere la lezione dell’uno e dell’altro per imparare a fare i conti con il futuro, in tempi di trasformazioni radicali che continuiamo a temere e di opportunità che non sappiamo misurare e che non ci prepariamo a cogliere.
Intendiamoci, lo sforzo di mettere sullo stesso piano, in una sorta di imbarazzato sincretismo, le idee e le risposte di Martini e di Giussani con lo sguardo rivolto al passato, sarebbe in buona parte poco rispettoso dell’evidenza. Tra le tante altre cose, Martini ci ha insegnato a considerare la libertà di coscienza come ricchezza naturale, a capire le ragioni dell’altro, a non vedere un nemico nella diversità, a concepire la proposta cristiana come testimonianza di carità. Ci ha raccomandato di non conservare una Chiesa troppo fatta di precetti e di divieti che teme il proprio tempo e non lo sa anticipare, che sopporta il peso talora deviante delle sue strutture e non si affida di più alla leggerezza potente del suo messaggio. Giussani ci ha lasciato un’antropologia cristiana militante e capace di coinvolgere e trascinare che ha ancora tanto da dire a un mondo dove il pericolo non viene più prevalentemente da un’idea sbagliata, ma soprattutto dalla povertà del pensiero, dal vuoto di valori, di progetti, di speranze e diventa sempre più diffuso il disorientamento.
Certamente, un nodo di contraddizione tra le due posizioni c’è stato e io lo ravviso nella concezione del rapporto con il potere. È una materia che si presta alle banalizzazioni e quindi ai giudizi fuorvianti. Ne abbiamo sentiti tanti e per tanto tempo. Ascoltandoli e parlando con loro non ho mai avvertito, in nessuno dei due, un atteggiamento di ritrosia o un pensiero negativo nei confronti del potere politico, economico, culturale. Piuttosto mi sembrava diversa la ricerca del “che fare” per veder scaturire buoni frutti dal potere. Il percorso non coincideva, le vie erano diverse. Nel motto di Martini non c’era solamente la prima parte pro veritate adversa diligere ma anche la seconda et prospera formidando declinare. È una lezione importante per tutti noi che cominciamo con l’inseguire gli strumenti del potere e del comando, in molti casi nella convinzione di essere in grado di usarli per il meglio e, in tante circostanze, prefigurando risultati positivi per tutti e poi ci lasciamo prendere e ingabbiare, perdiamo la nostra liberta’ e confondiamo l’ordine che le cose devono avere. L’esercizio del potere spesso abitua a perdere quel “timore”.
Non credo che tra Martini e Giussani vi fosse solamente una “varietà di sensibilita’” come dice Don Carron nella sua bella lettera. C’era molto di più: erano due modi diversi di dialogare con il mondo. Avevano in comune invece la voglia e la capacità di farlo. Non credo abbia molto senso mettere oggi il loro progetto in alternativa. La Chiesa deve ritrovare tutta insieme la capacità di essere maestra in un mondo che ha bisogno di punti di riferimento e non ne trova. Ci hanno lasciato un’eredità ricca e attualissima che bisogna raccogliere e continuare, recuperando unità di intenti nella società e, magari fosse possibile, nell’azione civile.