Sessantotto marchi per settantuno sfilate. Approda a Milano dal 19 settembre il circo della moda con le sfilate delle collezioni femminili preat-a-porter per la primavera 2013: sei giorni e mezzo di passerelle, nuove tendenze e party esclusivi. Un settore importantissimo, quello della moda, per l’economia del nostro Paese, sebbene abbia conosciuto tempi migliori, complice la crisi. Gli ultimi dati diffusi dalla Camera Nazionale della Moda Italiana sono tutt’altro che rassicuranti: per il 2012 è previsto un calo del 5,6% del fatturato, con un punto minimo toccato nel terzo trimestre (cioè in questo periodo). Più contenuto il calo dell’export: -2,4% rispetto all’anno scorso. Eppure, secondo un recente studio di Frontier Economics per la Commissione europea, l’alto di gamma è in grado di generare oggi il 3% del Pil dei 27 Paesi dell’Unione, un dato decisamente alto ma che soffre delle turbolenze dei mercati. Abbiamo chiesto un parere a Salvatore Testa, Direttore del Major Moda e Design delle LS Management dell’Università Bocconi e consigliere esecutivo del Milano Fashion Institute.



Professore, stando alle cifre diffuse dalla Camera Nazionale della Moda Italiana, il settore nel primo semestre dell’anno ha registrato una diminuzione del fatturato pari al 6,3% rispetto allo stesso periodo del 2011 ed è previsto un calo del 5,6% a fine 2012. Un dato giustificato dalla crisi o preoccupante perché colpisce il comparto del lusso?

Questo dato fa riferimento a un quadro generale ed è frutto di una media che comprende situazioni diverse di mercato: dal punto di vista dei consumi, il mercato italiano è sicuramente quello che soffre maggiormente. I beni durevoli, come tecnologia, automobili e abbigliamento sono ancor più colpiti perchè possono essere considerati accessori e non strettamente indispensabili. In Italia, la situazione è preoccupante: si è registrato un 15-20% in meno nei consumi. Fortunatamente, c’è una forte presenza di mercati emergenti, Cina, Brasile, Russia e Medio Oriente dove, al contrario, i consumi sono in fortissima crescita e i marchi italiani giocano un ruolo fondamentale.

Quali sono i prodotti italiani che mantengono appeal in questi mercati?

In questo momento storico è l’accessorio Made in Italy a trainare le preferenze dei nuovi mercati. Questo è dato da un fattore di maggior vestibilità rispetto ai capi di abbigliamento e per una maggior concorrenza dei retailers dei brand a basso costo. Borse e scarpe sono i prodotti che fanno da traino anche per i brands che sono, tradizionalmente, forti nel pret-a-porter. Mi riferisco a Prada, Gucci, Ferragamo e Tod’s.
 

 

E’ prevedibile anche una svolta della Cina verso il mercato del lusso nel tessile? La Repubblica Popolare potrebbe rendersi competitiva ad alti livelli?

 

Non nel breve-medio termine perché oggi l’acquisto di un prodotto di alta gamma ha ancora una forte valenza di tipo immateriale, legata alla storia, alla provenienza e all’immagine del brand stesso. Chiaramente, i marchi cinesi, che non sono mai stati presenti in questo tipo di settore, non fanno presa. Mi riferisco a marchi presenti sul mercato interno e che non hanno potuto acquisire prestigio su quelli internazionali. Un esempio è il marchio lanciato da Hermes, “Shang Xia”, presente solo in Cina. Come dice Bernard Arnaud, il valore di un brand è legato all’età, alla tradizione e alla presenza sul mercato che deve essere di almeno trent’anni.
 

 

Lei è d’accordo con l’affermazione del patron di Louis Vuitton?

 

Assolutamente sì. Soprattutto nel comparto del lusso, in particolare degli accessori, è veramente difficile risultare credibili se non c’è dietro un marchio una storia e una localizzazione di stampo europea: diciamo che la garanzia del “Made in Italy”, ancor più che per i francesi se parliamo di scarpe e borse, porta fortuna.

 

E nell’abbigliamento?

Per il pret-a-porter il discorso cambia. Sono convinto che per l’abbigliamento ci potrebbe essere lo spazio per giovani designer cinesi anche perchè è un settore legato a fenomeni di moda e nuove tendenze.
 

 

Burberry ha annunciato utili minimi per il 2012. L’altro giorno il suo titolo in Borsa è sceso del 18% e altri brands sono scesi a ruota. Che cosa comporta il crollo di questi marchi sui mercati?

Francamente, lunedì ci sono state reazioni esageratamente emotive. Semplicemente, sono statiannunciato utili meno consistenti del previsto, quindi, non stiamo parlando di un’azienda in difficoltà, ma di uno dei brand più forti al mondo che negli ultimi dieci anni ha conosciuto una crescita inarrestabile. E’ ben presente in tre continenti, con una struttura retail enorme, e sul mercato web dove fa una politica piuttosto innovativa.  E’ un dato del tutto fisiologico considerato il fatto che i mercati borsistici sono diventati ormai schizofrenici. Ieri, ad esempio, il titolo ha ricominciato a salire.
 

 

Anche gli americani di Abercrombie&Fitch, dopo aver confermato un calo del fatturato del 10% nell’ultimo trimestre, hanno annunciato la chiusura di 180 negozi. E’ il tramonto di un fenomeno?

 

Non penso. Anche in questo caso c’è un problema legato alla lettura dei dati.  Abercrombie&Fitch è un brand che, sino a pochissimi anni fa, era presente prevalentemente solo negli Stati Uniti, dove aveva una presenza capillare che definirei “democratica” e molto accessibile. Come lui anche Banana Republic, Guess, Gap e Ralph Lauren. Quando Abercrombie si è sviluppato sui mercati internazionali ha cercato di posizionarsi con un profilo più alto sviluppando una strategia che ritengo vincente. Contestualmente, in patria hanno cercato di “ripulire” il brand nella fascia più bassa andando a chiudere quei negozi più “cheap” o posizionati in aree più popolari: mi sembra questo l’unico motivo della chiusura di parecchi negozi e non parlerei di tramonto di un’epoca.

 

(Federica Ghizzardi)