Quello che è accaduto la scorsa notte al Beccaria costringe ad alcune riflessioni: sicuramente denota una mancanza di personale, in particolare modo di educatori. Poi si potrebbe parlare  di strutture fatiscenti o inadeguate, o addirittura di sovraffollamento (anche se in realtà senza dati allarmanti per gli istituti minorili), tutto vero ma non sufficiente a giustificare il desiderio di questi ragazzi a diventare dei “baby Vallanzasca”. L’elemento che più ci colpisce incontrandoli è il loro desiderio buono di diventare grandi, di diventare uomini adulti. Sono persone che nella stragrande maggioranza delle volte nascono e crescono in ambiti degradati dove delinquere è una normale professione, spesso l’unica possibile e allora diventa inevitabile che prendano a modello i grandi “delinquenti” della nostra epoca e si muovano, come in una gara a chi la combina più grossa, con l’intento di finire in un carcere adulto per potersi finalmente sentire uomini e non più ragazzi. E quando arrivano nei carceri adulti sono costretti a confrontarsi con chi adulto lo è già, con un ambito che tende a schiacciare il desiderio, con la sensazione di avere buttato via la propria vita pensando che ormai è troppo tardi. Quanto accaduto deve farci riflettere non solo rispetto le carenze strutturali ma anche sulla modalità con cui la società (cioè tutti noi) sostiene il desiderio di diventare uomini dei ragazzi, sulla modalità con cui si possa dare nuova speranza, su come anticipare il confronto con i detenuti adulti, su come dare loro la possibilità di avere altri modelli da seguire.



Associazione Incontro e Presenza

Quella che segue è la testimonianza di Matteo, volontario di Incontro e Presenza presso il carcere minorile Beccaria, dove pochi giorni fa è esplosa la rivolta.


“Siamo un gruppo di otto tra studenti universitari (Lettere e Giurisprudenza della statale di Milano) e giovani lavoratori appena laureati ed entriamo al Beccaria ogni 15 giorni la domenica mattina. Entriamo per la  celebrazione della Messa la cui partecipazione è libera e loro decidono liberamente se parteciparvi per il legame che hanno con don Gino Rigoldi e con noi. Poi c’è la partita di calcio: noi siamo una squadra e sfidiamo a torneo due loro squadre. Talvolta dopo le partite ci fermiamo per uno spuntino e qualche bibita che portiamo. Trascorriamo così l’intera mattinata”. 



Perché scegli di passare la domenica mattina così? 

E’ un gesto che mi è stato proposto per una crescita umana ed è effettivamente così. Noi non possiamo fare nulla per loro, non salviamo la loro vita e non pretendiamo di cambiarla. Non mi sento “un volontario” nel senso di avvicinarli per cambiarli, ma sperimento che loro non sono quello che fanno o hanno fatto. Possono essere qualcosa di più del loro fare o non fare. Nel rapporto con loro si capisce che una persona non è quello che fa e il limite non la definisce. Lo capisco per me innanzitutto. Nell’amicizia con i ragazzi la loro persona viene fuori al meglio, inaspettatamente desiderosa di bene, esattamente come desidero il bene anche io. Mi ha toccato talmente questo gesto che mi ha fatto crescere la passione per il mio studio (in giurisprudenza) e fatto decidere di intraprendere l’indirizzo penale. E per noi studenti di questa facoltà un orientamento del genere non è scontato.



Se tu incontrassi la prossima domenica “il piccolo Vallanzasca” che gli diresti?

Quando li incontriamo non gli chiediamo mai che cosa abbiano fatto per trovarsi lì. Farei lo stesso, affermerei la sua persona dicendogli: “Ciò che hai fatto è grave, ma non rovina il nostro rapporto. Voglio esserti amico”. Glielo direi perché anche io ho incontrato qualcuno che nel momento in cui sbaglio mi dice: “Riparti!”.

Questa è invece la testimonianza di Beppe (il nome è di fantasia) che in passato ha trascorso 15 anni in carcere e che più di tutti può comprendere ciò che può generare un’esperienza del genere. Beppe parla anche del “giovane Vallanzasca”, il ragazzino originario del quartiere di Quarto Oggiaro che praticamente da solo ha fatto scattare la rivolta. 

  

“Ho iniziato ad entrare in carcere a 14 anni e, dopo un anno e mezzo al minorile, sono rimasto dentro per una quindicina d’anni. In teoria ero “in osservazione” ma in realtà ero detenuto a tutti gli effetti. Ho organizzato un ‘evasione di gruppo e in sette siamo riusciti a scappare dal minorile. Tutti riacciuffati, tutti puniti duramente. A me la pena più dura: il trasferimento a un minorile più severo dove i permessi erano solo a Natale e Pasqua. Per un ragazzino è dura. I tempi ora sono cambiati, noi diventavamo delinquenti “per gradi”: elementari, medie e superiori. Ora questi ragazzini vanno subito all’università, anche a causa dei media che esasperano ed esaltano certe figure. E’ fuori dalla norma organizzare una rivolta in un minorile, non ce ne sono state molte negli ultimi decenni. Purtroppo ne faranno un idolo, e lui con questo danno si è procurato rispetto nel circuito delinquenziale”. 

Cosa può interrompere questa spirale?

Solo un soggetto può interromperla. Un soggetto che metta anima e corpo nel rapporto con te per aiutarti a reinserirti. A me questo è successo con gli amici dell’Associazione Incontro e Presenza. Mi hanno incontrato, voluto bene e dal 2008 io sono fuori, lavoro, vivo nella mia famiglia e sono contento. La buona volontà non basta, se fuori non hai appigli torni ad essere delinquente. 

Cosa diresti al “Piccolo Vallanzasca” se potessi incontrarlo?

Parla con te stesso sinceramente e cerca chi sei veramente. Non ti dico “non delinquere” ma rivolgiti a persone che ti possono aiutare, lì al Beccaria ce ne sono tante. Aggrappati a qualche “camicia” che ti permetta di trovare la salvezza.