La vasta e calorosa partecipazione popolare alla morte del cardinal Martini ha lasciato molti – me compreso – sorpresi. Sì, certo, arcivescovo a Milano per più di vent’anni. Ma, anche, ritirato da più di dieci e ormai lontano dalla ribalta mediatica. Non c’è nulla di scontato in quello che è successo. A spiegare questi eventi concorrono numerosi aspetti che credo meriterebbero una approfondita riflessione. Ne comincio a richiamare tre, senza alcuna pretesa di esaustività.



In primo luogo, la morte di Martini ha rivelato quanto il cardinale facesse parte di quel ristretto gruppo di persone la cui scomparsa viene percepita come una perdita, un lutto, appunto. Appresa la notizia, tanti hanno sentito di perdere qualcuno che sentivano parte della loro vita, qualcuno la cui presenza li aveva accompagnati in momenti felici o in quelli tristi. Dal punto di vista sociologico, a determinare questo risultato, possono concorrere tanti fattori quali, ad esempio, la durata della visibilità e la rilevanza della carica occupata. Ma ad essere decisiva, in questo come in altri casi, è stato il coraggio di mostrare se stessi, pur senza alcuna ostentazione, nella propria umanità, abbandonando quel velo di protezione che il ruolo sempre garantisce. Un effetto che si è ingigantito, per i paradossi della società della comunicazione, nelle scelte che Martini ha compiuto quando ha lasciato il suo incarico milanese: il suo ritiro a Gerusalemme, la sua serena accettazione della perdita di potere e di visibilità e, negli ultimi anni, della sofferenza e della malattia. Da questo punto di vista, Martini, a suo modo, è stato un pastore di anime, capace di farsi sentire vicino e di mostrarsi coerente nella sua umanità, che includeva profondamente anche la dimensione religiosa. Questo, davvero, lo hanno capito in molti.



In secondo luogo, Martini ha davvero incarnato uno dei volti più luminosi della Chiesa, quello dialogante. In questi giorni, basta aprire un giornale e si vedono subito le tante, grossolane strumentalizzazioni di chi vuole tirate dalla propria parte una figura come Martini. Ma l’essere strumentalizzati è il destino di tutti quelli che rischiano qualcosa. Di coloro, cioè, che si mettono in gioco sfidando quel “regime delle equivalenze” dove tutto è semplicemente uguale a tutto e dove vige il mero adattamento alla situazione o lo sfruttamento della opportunità. La realtà è che Martini nelle sue corde e, credo, anche nel mandato ricevuto da Woitjla – che ebbe il coraggio di nominarlo a Milano a 52 anni! – aveva il talento per dialogare con la parte non credente che, in una città come Milano, cominciava a sentirsi, soprattutto culturalmente. Se il suo obiettivo è stato quello di rendere visibile e accettato da tutti lo spazio della domanda del senso – quello “spazio sacro dell’infinito” come a me piace chiamarlo, che costituisce la premessa non solo dell’esperienza religiosa personale ma anche della presenza della religione nella sfera pubblica – quanto è accaduto in questi giorni dimostra che lo ha raggiunto. La città, infatti, lo rimpiange proprio come colui che ha saputo richiamare tutti a vivere ponendosi domande. Nella tradizione di un cristianesimo che sa che, una volta effettuato questo primo passo, buona parte della strada verso la conversione è già compiuta, Martini ha gettato nella mischia, senza riserve e reticenze, tutto il suo modo di essere cristiano. E questa testimonianza è davvero passata.



In terzo luogo, la figura di Martini si staglia come figura della Parola. Come biblista, qui giocava in casa. Ma mi pare che, anche su questo punto, c’ê qualcosa che Martini ha detto più chiaramente di altri e cioè che la Parola di Dio, per noi contemporanei, può davvero continuare a essere una straordinaria occasione di rivelazione. Una fonte con la quale ci si può e si deve confrontare per scoprire veramente chi siamo. Essere riusciti, in un’epoca in cui le società avanzate sono state travolte dalla moltiplicazione esponenziale dei mezzi e dei messaggi della comunicazione, a dar valore alla Parola, è un risultato preziosissimo raggiunto dal Cardinale. Un risultato che si basa su un presupposto: al di là di tanti possibili contenuti, è il metodo – nel suo caso la lettura e il confronto con la Parola – ciò che fa la differenza. Mica poco, di questo tempi.

Vorrei concludere accostando due fenomeni tanto diversi ma entrambi impressionanti quali la recente giornata mondiale delle famiglie e i funerali di Martini. Come sociologo so che, anche a Milano, i segni della scristianizzazione sono molto preoccupanti. Eppure, sotto la cenere, la brace continua a bruciare. Calda. Di brace, in effetti, si tratta, nel senso che questa sensibilità così spiccata è il segno di quanto in profondità il cristianesimo sia penetrato nelle fibre della società milanese (e italiana). Al di là delle sue fragilità oggettive, che qualche volta lasciano sgomenti.

Da qui, da questa brace, occorre allora ripartire. Riconoscendo in essa il terreno comune.

Anche in questi giorni, qualcuno è tornato sulle contrapposizioni che sono esistite e, in parte, ancora esistono nel mondo cattolico. Mettendo Martini da una parte, in contrapposizione ad altre. Non che queste divisioni non ci siano state o che diverse sensibilità non siano anche oggi ben presenti. Ma io spero vivamente che la morte di Martini sia uno stimolo per fare un passo in avanti. Come ha detto detto Benedetto XVI, Martini e stato un grande servitore della Chiesa, di cui egli ha mostrato un volto. Possiamo, di fronte a questa vita vissuta per il Vangelo, finalmente ammettere che la Verità che professiamo è, per dirla con Von Balthasar, “polifonica”? E che la Chiesa, in tutta la sua storia, è stata ricca proprio quando ha saputo coltivare questa varietà nello spirito di ex pluribus unum?

Per ricreare la brace e tenerla viva ci vuole legno che arda. Al di là del fatto che sia betulla o quercia. Da questo punto di vista, la prima eredità di Martini è dunque questa: ardere per Cristo significa vivere una vita pienamente umana, per il bene della Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà.