Non gli ha dato del brigatista, ci mancherebbe, mica vuol beccarsi una querela, ma la suggestione prodotta in chi lo ha ascoltato è pressappoco analoga. L’aspetto mite di Albertini, per contrasto, ne rende le sferzate ancora più acide; sapeva, quindi, dove andava a colpire quando, di Nichi Vendola, ha detto: «firma il referendum per ritornare all’articolo 18 degli anni di piombo». Ovvio che il capo di Sel si sia sentito in dovere di prendere la distanze dall’immagine con cui è stato dipinto: «Si è trattato di affermazioni volgari e barbariche», ha detto, sottolineando come «chi ha scritto lo Statuto dei lavoratori è stato obiettivo delle Br». Albertini, dal canto suo, non ha fatto una piega, e ha replicato: «È un dato di fatto che lo Statuto dei lavoratori che contiene l’articolo 18 sia stato firmato nel 1970, anni di grandi tensioni sociali. Non ci provi lui a strumentalizzare il mio pensiero per cercare di far passare l’idea che ritenga l’articolo 18 risultato degli anni di piombo». Abbiamo chiesto a Massimo Ferlini di precisarci i termini della questione.
Albertini l’ha sparata grossa?
Dal punto di vista storico ha fatto un errore. L’articolo 18, così come l’intero Statuto dei lavoratori nel quale è contenuto, non vide l’approvazione parlamentare della sinistra. Essa, infatti, riteneva che si stesse intervenendo con una legge su una questione che sarebbe dovuta restare di pertinenza della contrattazione. Un ribaltamento delle parti, rispetto a quanto sta avvenendo oggi.
A cosa si riferisce?
Oggi la sinistra sindacale sta aspramente combattendo l’articolo 8 del D.L. 138/201, che delega alla contrattazione decentrata talune questioni quali l’aumento dei salari di produttività. Si è, in sostanza, eretta a difensore dello status quo e dei diritti acquisiti, invece che del potere e della capacità contrattuale del mondo sindacale. Resta il fatto che, al di là dell’errore storico, Albertini, sul fronte politico, ha delle ragioni.
Quali?
La discussione sullo Statuto dei lavoratori innesca, alla fine degli Anni 60’, i prodromi di quelle iniziative che condussero allo scivolamento dalla cultura della contrattazione del movimento sindacale, alla riduzione dei desideri in diritti o all’inseguimento di posizioni concertative e verticistiche anche nella gestione della relazioni sindacali. Tutto ciò accadde all’inizio di quella stagione di sommovimenti, entro cui maturarono posizioni che portarono al periodo degli Anni di piombo e all’esplodere della violenza. Violenza che, oltretutto, colpì in maniera particolare chi si mosse, rispetto alla legislazione del lavoro, in ambito riformistico.
Secondo lei, che ragionamento fa Vendola?
Uno molto più semplice: all’interno del movimento sindacale c’è una bandiera agitata dalla posizioni più sinistre. Lui cerca di intercettare questo bacino. L’uso del referendum, che nelle battaglie sindacali è un controsenso, viene cavalcato per mere ragioni elettorali.
Cosa dovrebbe fare?
Avanzare una proposta, articolata sui sistemi di entrata e di uscita in grado di salvaguardare le tutele dei lavoratori (e non del posto di lavoro).
Lei cosa suggerisce?
Con l’Aspi è stato introdotto un fondamentale, principio: il sostegno al reddito per chi si trova senza lavoro viene generalizzato, e non riguarda più solo certe categorie. Oggi la sfida consiste nell’accompagnare l’Aspi con dei servizi per il reinserimento nel mondo del lavoro. Il disoccupato, in cambio del sostegno al reddito, deve accettare tale reinserimenti o percorsi formativi finalizzati al nuovo impiego. Da questo punto di vista, abbiamo un ritardo storico enorme. Così come ancora non disponiamo di un’agenzia nazionale in grado di coordinare, programmare e utilizzare le risorse pubbliche per le politiche del lavoro, volte ad aiutare le persone che sono alla ricerca di una nuova occupazione.
Lei la riforma Fornero la lascerebbe inalterata?
La riforma, sia per quanto riguarda la flessibilità in entrata che in uscita, ha sofferto vincoli e trattative parlamentari, rigidità imposte a volta da sinistra e, altre, da destra; indubbiamente, richiede, quindi, un’intensa attività di manutenzione dei suoi principi fondamentali. Credo che sia opportuno saldare tali intervenienti con la creazione di un’agenzia nazionale capace di coordinare le politiche attive e passive, dimostrare che anche in Italia si può facilitare la ricerca del lavoro e che c’è qualcuno disposto ad aiutare gli altri in questa impresa, pubblico o privato che sia; l’ipotesi di una nuova riforma, invece, è da scongiurare. L’inevitabile andare per le lunghe del dibattito parlamentare ritarderebbe l’efficacia di alcuni strumenti positivi previsti della disciplina riformata quali, come già detto, l’Aspi.
(Paolo Nessi)