Due fatti degli ultimi giorni sembrano aver dato il colpo di grazia al modello di integrazione inaugurato dall’amministrazione Pisapia: la sentenza che ha dichiarato Kabobo capace di intendere e volere e la retata di una gang di latinos particolarmente violenta che spadroneggiava in città. C’è solo qualcosa da registrare o è tutto l’impianto a non stare più in piedi? Lo abbiamo chiesto a Anna Scavuzzo, capogruppo della lista Milano per Pisapia in Consiglio comunale. Lei, che è una “tosta” e da volontaria si prende cura di alcune famiglie in difficoltà, ci ha risposto così. “L’integrazione – ci ha detto – riguarda sempre persone in carne e ossa. Quello che è successo nei giorni scorsi a Lampedusa ha riportato al centro questo fattore importante, che troppo spesso purtroppo si dimentica. Se si perde di vista questa centralità anche quando si parla di percorsi di integrazione si rischia di essere astratti e di accorgerci che si tratta di persone quando è troppo tardi, quando accadono fatti talmente tragici che rimettono tutto in scala. Invece la centralità della persona è un fatto indiscusso. Si seguono ragazzi che hanno un nome e un cognome, famiglie che hanno una loro storia”.
Il modello d’integrazione di Pisapia è entrato in crisi?
Guardi, quelli che ha citato sono fatti di violenza, pertanto non sono legati a un particolare modello di integrazione. Quando ci sono fatti di violenza, non è questione di colori o di integrazione. È violenza e va presa per quello che è. Sono reati contro la vita, contro la dignità delle persone, non rientrano in nessun modello. Quello di Kabobo poi è un caso talmente estremo che non mi spingerei ad analizzarlo come esempio di integrazione malriuscita. Piuttosto credo che vadano approfonditi altri contesti.
A cosa si riferisce?
Ad esempio al problema della dispersione scolastica delle seconde generazioni. Aiuterebbe a riportare alla quotidianità il tema dell’integrazione.
Fanno male i milanesi ad avere paura?
Credo che laddove ci sia un sentimento di paura, c’è sempre anche una chiusura. A volte le reazioni sono eccessive, quasi scomposte, tradiscono un’emotività che va al di là del ragionamento. Soprattutto quando ci sono casi così faticosi da ammettere, come quelli di cui stiamo parlando. Io stessa ricordo di essere rimasta colpita il giorno dei funerali delle persone uccise da Kabobo. Mi sembra che ci sia un sentimento da accompagnare, da non lasciare da solo di fronte a domande che tradiscono delle fatiche. Tornando alla domanda iniziale.
Prego.
I modelli di integrazione, quello di Pisapia piuttosto che quello di altri sindaci, non pretendono di risolvere i problemi del mondo su scala locale.
Ma?
Forniscono alcuni strumenti che permettono piste di lavoro adeguate a contesti diversi, siano essi di natura educativa, che hanno a che fare con ragazzi, piuttosto che con adulti per facilitare il loro inserimento nel mondo del lavoro. Tutte cose che contribuiscono a tenere bassa la tensione sociale. Che è segno, credo, di grande civiltà. Anche all’estero ci sono esempi di percorsi faticosi, da Gerusalemme ai Balcani. Io vengo proprio da queste esperienze. Questi percorsi sono tanto più faticosi quanto più si va all’origine della paura: se hai paura della persona che ti sta di fronte, qualsiasi percorso io ti proporrò sarai sempre in difficoltà. Penso che sia importante anche un’altra cosa.
Quale?
E’ importante definire anche la possibilità di compiere questi percorsi.
Cosa intende?
Io vengo da via Padova, lì faccio attività da vent’anni. E posso dire di averne viste di tutti i colori. Ci sono attività che funzionano, altre che non funzionano. Bisogna essere meno demagogici e accogliere la possibilità che alcuni di questi percorsi devono essere modificati.
Cosa si può fare? Si può intervenire con dei correttivi?
Certo. A parte il fatto che questi modelli per funzionare hanno bisogno di una risposta di rete. Laddove si crea una rete che funziona tra le istituzioni, il privato sociale, nel mio caso la parrocchia, gli insegnanti, gli assistenti sociali, le aziende che riescono anche in un momento come questo a garantire la continuità la continuità, il modello non è sulle spalle di uno solo. Il problema è quando salta uno di questi nodi: il rischio è che tutto il sistema vada in crisi e ricada su famiglie che sono già fragili. Il modello dell’integrazione non é solo dell’amministrazione che deve fare alcune cose affinché funzioni.
A che titolo si occupa di queste persone?
Quando uno si fa carico di situazioni di questo genere entra a far parte di una rete. In alcuni casi sono entrata in contatto con famiglie tramite la parrocchia, in altri mi sono state segnalate dall’assistente sociale di zona 2. Bisogna essere sensibili per capire in quale punto della rete è importante inserirsi.
Lei cosa fa per aiutare queste persone?
Ci sono famiglie che hanno bisogno di aiuto per redigere documenti, perché non sono in grado di farlo. Magari hanno i requisiti per accedere a un sussidio o per inserire i figli a scuola ma non sono in grado di compilare correttamente i documenti. Altri hanno invece bisogno di essere aiutati economicamente per un periodo per non finire nel giro dell’usura. Per queste persone sono previsti percorsi di accompagnamento, in genere da gruppi della Caritas che garantiscono loro un minimo di sostentamento. Altri ancora hanno bisogno di attività pomeridiane per i ragazzi in modo che non passino tutto il tempo da soli in giro per il quartiere. Io sono scout e vengo spesso in contatto con tante di queste associazioni che si fanno carico dei vari problemi.
Come giudica il comportamento della magistratura nei confronti degli immigrati?
Ho fiducia in quello che sta facendo la magistratura per i casi più gravi. Mi dispiace, ma non è un problema della magistratura, che in giro ci sia un pregiudizio piuttosto diffuso nei confronti dei migranti che non sempre vengono trattati, diciamo, con modi educati. Penso che quello che è successo nei giorni scorsi a Lampedusa ha riportato al centro un fattore importante, che troppo spesso purtroppo si dimentica.
Di cosa si tratta?
L’integrazione riguarda persone in carne e ossa. Se si perde di vista questa centralità anche quando si parla di percorsi di integrazione si rischia di essere astratti e di accorgerci che si tratta appunto di persone quando è troppo tardi, quando accadono fatti talmente tragici che rimettono tutto in scala. Invece la centralità della persona è un fatto indiscusso. Si seguono ragazzi che hanno un nome e un cognome, famiglie che hanno una loro storia. E c’è grande rispetto di tutto questo.