All’inaugurazione della mostra “La mia gente. Enzo Jannacci, canzoni a colori”, condotta dal direttore di Wow Spazio Fumetto Luigi Bona, è intervenuto don Roberto Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana, che ha fatto notare come non sia affatto strano il connubio tra fumetti e opere sociali. Oggi più che mai – ha detto – “c’è un grande bisogno di arte perché contemplare opere d’arte, come anche cantare, aiuta a far riprendere coscienza”.
Gli ha fatto eco Giuseppe Guzzetti, che ha spiegato come il principale criterio di Fondazione Cariplo nel destinare fondi sia la capacità di un progetto di creare coesione sociale. E ha aggiunto: “Quella del barbone, prima, poteva essere una scelta, ora la povertà è violenza subita senza speranza”. Ha concluso dicendo che “un’iniziativa come questa ricorda che in una situazione di disgregazione sociale come l’attuale, la cultura è un grosso collante che permette a chi è senza speranza di ritrovarla”.
Ma cosa rende così unica la traccia lasciata da Enzo Jannacci se, forse, nemmeno lui era davvero consapevole di tutto quanto stava dando alla “sua gente”? Sandro Paté, che si è laureato con una tesi su Jannacci, ricorda che letto il suo testo Enzo gli disse: “Bravo, hai fatto un bel lavoro. Peccato l’argomento…”.
Davide Barzi ha raccontato di essere legato a Jannacci per una sorta di imprinting, visto che quando aveva due ore di vita il medico-cantante passò nel reparto di quell’ospedale. Ha raccontato poi l’origine dell’“onda contagiosa dello jannaccismo” che ha visto crescere sotto i suoi occhi in questi mesi dopo la sua morte: “Enzo o non lo conosci, o non ti piace per niente, oppure, se in qualche modo entra nella tua vita, se una sua canzone riesce a penetrare nelle tue orecchie, non te lo scordi più. Una delle soddisfazioni più belle nella realizzazione di questa mostra è stata contattare i disegnatori che non conoscevano Jannacci, se non per i tormentoni che hanno in testa tutti, affidare loro il brano che mi sembrava adeguato alla loro sensibilità e, dopo che l’avevano ascoltato, sentirmi dire: grazie, questa canzone mi ha toccato il cuore”.
Che lo “jannaccismo” ti prende nel profondo è apparso evidente dalla commozione di Barzi e amici quando Susanna Parigi ha iniziato lo showcase de “Il saltimbanco e la luna”, spettacolo realizzato con il giornalista e scrittore Andrea Pedrinelli, cantando “Mamma che luna che c’era sta sera”, musica di Jannacci e testo del suo grande amico e allievo Enzo Limardi, anche lui presente al Museo del fumetto. Aleggiava non l’emotività ancora scossa per la recente perdita di una persona amata ma l’emozione di chi si rende conto di essere di fronte a un maestro, non solo d’arte ma di vita, che forse si è solo iniziato a scoprire.
“Cosa propone Enzo in risposta al nostro essere ‘uomo a metà’, come recita il titolo di una sua canzone?”, si chiede Pedrinelli. “Il saltimbanco – risponde – quello che, mentre gli altri mangiano o vedono la televisione, guarda il mare. È matto? No. E’ l’unico poi che potrà raccontarlo”. Ci sono brani di Jannacci anche difficili da digerire. Come ha potuto pensare di essere accettato con questi brani? Pedrinelli ricorda la risposta di Enzo: “Se sei timido certe cose non le capiscono, e non le capiscono neppure se ti hanno etichettato. E poi se non fai più il matto, non vai più bene. Allora io ad un certo punto ho fatto quello che di solito non si fa: togliermi tutte le maschere, non cantare più in dialetto ma in italiano e mettere dentro una canzone sia i miei tormenti che la società. Ho ritrovato la sicurezza di scrivere canzoni come “Io e te”, “Maria”, e ho capito che se sei vero la gente ti ascolta”. Commenta il giornalista: “La musica leggera è come il carbone, non è una roba nobile, però può dare luce e calore. Ma perché ciò avvenga bisogna farla senza maschere. “Vale tanto una canzone?” si chiedeva Enzo in “Quando il sipario calerà”? Sì, se parla della vita con le parole della vita. Perché, come dice in “Saltimbanco” la vita è mistero, è comica e tragica insieme. Una canzone vale quando racconta storie che vanno oltre la vita stessa e ti fanno arrivare alle persone. Se ci pensate, l’arte vera non cerca le masse, non grida ma chiede permesso, bussa. Infatti la canzone con cui Jannacci è diventato saltimbanco, “El purtava i scarp del tenis”, inizia con “che scusé…”.
Dunque non si può che essere d’accordo con Davide Barzi e Sandro Paté quando prendono le distanze da chi ha sostenuto che quella Milano raccontata da Jannacci non c’è più. Non solo perché siamo in un momento di crisi con nuove povertà che si aggiungono alle vecchie. Ma perché è in crisi l’uomo, la consapevolezza di sé e di ciò per cui “val la pena” di stare al mondo. La ferita di Jannacci, la scomodità di essere se stesso, il non bastarsi mai, la sua curiosità inquieta e da bambino, la percezione di essere sempre un po’ meno di ciò avrebbe voluto è la ferita dell’uomo in quanto tale. Ricco o povero che sia, sfruttato o meno. Enzo sapeva che la povertà più insidiosa è la perdita di consapevolezza del proprio valore.
Incontrarlo significa essere accompagnati a prendere in mano la fatica e la poesia di essere uomini. L’avventura umana del grande medico e artista alla fine “non si lascia raccontare” se non da chi la avverte così viva e presente da desiderare di viverla ancora, a modo proprio.
(Silvia Becciu)
Tormenti che la società. Ho ritrovato la sicurezza di scrivere canzoni come “Io e te”, “Maria”, e ho capito che se sei vero la gente ti ascolta”. Commenta il giornalista: “La musica leggera è come il carbone, non è una roba nobile, però può dare luce e calore. Ma perché ciò avvenga bisogna farla senza maschere. “Vale tanto una canzone?” si chiedeva Enzo in “Quando il sipario calerà”? Sì, se parla della vita con le parole della vita. Perché, come dice in “Saltimbanco” la vita è mistero, è comica e tragica insieme. Una canzone vale quando racconta storie che vanno oltre la vita stessa e ti fanno arrivare alle persone. Se ci pensate, l’arte vera non cerca le masse, non grida ma chiede permesso, bussa. Infatti la canzone con cui Jannacci è diventato saltimbanco, “El purtava i scarp del tenis”, inizia con “escusé…””.