Ha definito laicamente il Natale “come una pausa di silenzio durante una musica, un’occasione propizia per riflettere sul senso da dare al nostro cammino”. Incontriamo il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, nel suo studio, e partiamo proprio da qui. In questa sorta di “sospensione” sui generis della vita che è il Natale, come lui l’ha definita pochi giorni orsono, viene da pensare all’anno trascorso. Molte le cose accadute. Un paese, l’Italia, sprofondata in una instabilità istituzionale e politica di cui non par di vedere soluzione o approdo. Lo choc della rinuncia di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco. Il medio oriente ancora in preda a rivolgimenti e spargimenti di sangue, quasi una frustrante smentita dell’anelito di libertà che ha stupito il mondo nei due anni precedenti. Il dramma umanitario di chi abbandona tutto per trovare una nuova vita e lavoro in Europa ma muore prima di toccare le nostre coste. Non ultimi, la crisi economica che continua e la mancanza di lavoro per adulti e giovani.
Il cardinale svolge come sempre la sua riflessione in modo pacato, profondo. Un compito decisivo di noi uomini postmoderni, dice, è ritrovare una chiave di lettura unitaria dei molti avvenimenti che investono, in circostanze drammatiche oppure nella nostra quasi dimenticanza, la vita di ognuno di noi. E la “pro-vocazione” che il Natale cristiano rivolge alla nostra coscienza, è senz’altro uno di questi. Scola cita Deleuze e Giussani, spazia dall’Expo 2015 (a cui ha dedicato il suo ultimo lavoro, Cosa nutre la vita? Expo 2015) a padre De Lubac. Paragona lo skyline di Londra, dominato dallo Shard, un grattacielo a forma di scheggia, appunto, a quello di Milano, con la sua guglia di vetro e cemento che ricorda quella, molto più antica, del duomo. “La freccia verso il cielo di Unicredit può davvero non evocare la guglia? Questo ci fa capire la necessità di guardare in alto, che Dio torni a prendere peso” dice. Non possiamo fare a meno di Lui, se non vogliamo edificare un mondo che sia, alla fine, contro l’uomo stesso”.
Eminenza, cosa vede lei nella trama dei gravi e grandi, per lo più drammatici, avvenimenti che segnano questo anno trascorso?
Per non cadere in facili semplificazioni, bisognerebbe esaminarli nella loro singolarità, e tuttavia una chiave unitaria di lettura c’è. Lo esige la nostra natura di uomini. L’uomo comprende adeguatamente nella misura in cui possiede un punto di sintesi esistenziale, vitale, che gli permette di affrontare, rispettandone la natura, tutte le circostanze, evitabili o inevitabili, favorevoli o sfavorevoli, e tutti i rapporti, buoni o cattivi, favorendo in tal modo la crescita dell’io. Tutti questi avvenimenti, clamorosi eppure così diversi tra loro, rappresentano un pungolo alla domanda di senso che l’uomo si porta dentro.
Lo dice da credente, ancor prima che da pastore della Chiesa.
Io sono cristiano, sì. Per chi crede, tutti questi avvenimenti sono la mano di Dio nella storia. Le circostanze che tramano la realtà son il modo con cui Dio si fa vicino a me, entra in relazione con me, chiede il mio coinvolgimento. La vita è vocazione: l’ho imparato, fin da giovane, da quel grande educatore che è stato il Servo di Dio Mons. Luigi Giussani. Lo abbiamo visto molto bene nella liturgia di domenica.
Nel vangelo dell’annunciazione?
Sì. Pensiamo a cosa dovette significare, per una ragazza di quell’età, l’annuncio dell’angelo: quale avvenimento poteva essere più sconvolgente? Maria stessa ne è assolutamente consapevole, infatti il vangelo di Luca mette bene in evidenza le domande che Maria pone all’angelo prima di dire sì. Non è incosciente, ma “critica” nel vero senso del termine, si rende conto dell’inaspettata, impensabile novità drammatica in cui quell’annuncio la pone.
E chi non crede? Quale senso gli resta?
Sono convinto che anche a quelli che non credono, o dicono di non credere, gli eventi di quest’anno ripropongono la domanda del senso. E che lo fanno indipendentemente dalla risposta che uno vorrà o potrà dare. La cosa da evitare è l’essere sordi a questa domanda, il non lasciarla entrare nel cuore e nella mente, rinunciando a farla vivere e lavorare in noi.
“Forse qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?” si chiedeva Pavese. Per i cristiani, Dio, il Senso di tutto, si fa carne ed entra nella storia degli uomini. Oggi però la domanda di Pavese si è per lo più assopita. Che cosa può accadere ancora che noi non sappiamo già, che noi non siamo pronti a comprendere e manipolare? Una novità è ancora possibile?
Distinguerei due aspetti. Quanto al primo, è vero: l’uomo contemporaneo, in forza della tecnocrazia, per la quale delega volentieri solo ai tecnici le risposte alle questioni urgenti, pretende di dominare il futuro, elaborando anzitempo una risposta per limitare la forza degli eventi che mettono in questione la sua supremazia. Però, oggi come in ogni tempo, l’uomo non è onnipotente. Solo Dio lo è. L’Onnipotente conosce le cose prima che accadano, ma noi, che non lo siamo, le conosciamo solo dopo che sono avvenute. Per quanto la domanda di senso possa essere assopita e sepolta dai molti detriti della nostra vita, l’elemento di sorpresa che la verità porta con sé quando viene al nostro abbraccio, è ineliminabile.
Vale anche per la morte?
Mi hanno comunicato proprio in questi giorni la morte di una persona cara. Tra le circostanze inevitabili, la morte è la più provocatoria, la più significativa, perché ci costringe a porci di nuovo la domanda. La morte di quel giovane sposo e padre ha riaperto la domanda di senso non solo per la sua famiglia, ma per le tante persone che la circondano, più o meno lontane da una pratica cristiana della vita. Per quanto il nostro cuore sia atrofizzato, la verità continua a venirci incontro e a sfidarci. La verità è sempre più grande di noi. Per questo la domanda, prima o poi, torna fuori.
Il primo aspetto dunque è la volontà, illusoria, di dominare tutto. E il secondo?
Riguarda l’altro limite dell’uomo contemporaneo, il narcisismo, questa forma pervicace di individualismo nella quale siamo tutti immersi. Per vincerlo abbiamo bisogno di una compagnia che ci aiuti a tenere desta la domanda; altrimenti la paura, l’ansia, l’angoscia, il nostro comodo, la atrofizzano. Ma Dio è veramente misericordioso e buono: attraverso la trama delle circostanze e dei rapporti non cessa in tutti i modi di ri-chiamarci a Lui. Vuole farci compagnia.
Cosa dobbiamo fare?
L’uomo autentico non è soltanto l’uomo curioso, quello che si domanda perché, ma anche l’uomo che si dispone a imparare; perché chi non impara non cambia, chi non cambia non cresce, chi non cresce, muore.
Che cos’è il Natale?
Un fatto enorme, sul quale purtroppo riflettiamo poco. Il Natale è una nascita. Noi uomini moderni dibattiamo molto di nascita e di morte, ma spesso ci sfugge la differenza radicale che c’è tra le due. La morte è qualcosa che si innesta sulla normale linea di sviluppo della vita: tutto ciò che nasce muore, lo capiamo tutti. Noi cristiani crediamo nella resurrezione della carne − è il dono della fede che Dio ci ha fatto −, ma la morte, come dissoluzione, entra anche nel tessuto della nostra normale esperienza della vita, appartiene allo sviluppo lineare del resto della vita. Non così la nascita. Essa rappresenta sempre l’irruzione dall’alto di qualcosa di nuovo, è originale inizio e sorpresa.
Perché dice questo?
Ma perché tutto questo ha una conseguenza fondamentale che andrebbe attentamente meditata dall’uomo contemporaneo, e che il Santo Natale, proprio perché è la nascita nella carne del Dio bambino, pone alla nostra attenzione con forza: non sarà mai possibile auto–generarsi. La nascita è, razionalmente, l’irruzione di qualcosa d’altro, dell’oltre, sulla linea di sviluppo della famiglia umana. E il Natale è il vertice di questa novità. Cosa si può pensare di più inaudito, di più misterioso e grande, del fatto che Dio, che è da sempre e per sempre, accetta di passare dal seno di una donna, di diventare uomo come ognuno di noi? Se noi riflettessimo sul senso della nascita, alla luce di questa Nascita che illumina il senso di ogni nascita, sorgerebbe subito in noi l’altra domanda: perché Dio fa questo?
Cosa risponde?
A rispondere è Dio stesso. Lo fa per amore: per il desiderio che Dio ha di farsi vicino, di farsi compagnia ad ognuno di noi. Agostino, traducendo genialmente la grande affermazione di Gesù, ha scritto che Gesù è la via alla verità e alla vita. La nascita del Dio bambino è un fenomeno di resurrezione, di “risorgimento” di ognuno di noi. Se non abbiamo la fede, o diciamo di non averla, proviamo almeno a rivolgerci al mistero di ogni nascita, e paragoniamolo alla nascita del Dio nella carne umana. Troveremo energia di ripresa per la nostra esistenza, un evento capace di portare uno sguardo benefico su tutta la nostra vita quotidiana: gli affetti, il lavoro, il riposo, il modo di educare, di portare il dolore, di edificare la comunità cristiana e una società civile più giusta.
In questo Natale che cosa domanda, lei, per il paese in cui vive? Per che cosa prega?
Chiedo il miracolo, che ha bisogno però del libero coinvolgimento di ogni uomo e di ogni donna, di poter tutti ritrovare quel vitale principio unificante di cui ho parlato prima. L’ho chiamato nuovo umanesimo, ma si potrebbe anche chiamare “riscoperta di un’anima“. Siamo entrati nel postmoderno, ma che cosa ci ha lasciato la modernità? Tante schegge buone: un discorso sulla libertà, un altro sul valore della singola persona, un altro sul nesso inscindibile tra i diritti e i doveri e le leggi, un altro ancora sulla solidarietà, sulla sussidiarietà, sulla necessità di edificare una vita buona personale e sociale, eccetera. Questi però sono frammenti, la realtà è che abbiamo perduto uno sguardo sintetico che li comprenda tutti. Si tratta ora di ritrovare questo sguardo.
E dove passa la strada di questo sguardo, di questa “riscoperta di un’anima”?
Serve un approccio nuovo, che tenga innanzitutto conto della società plurale, cioè tendenzialmente conflittuale, nella quale ci troviamo a vivere. Come vediamo tutti i giorni, su alcuni grandi principi nascono continuamente conflitti, e noi pensiamo di poter delegarne la soluzione all’economia e al diritto. Invece si tratta di ripartire dall’esperienza comune di ogni uomo, l’esperienza elementare degli affetti, del lavoro e del riposo, l’esperienza fondamentale che la verità, attraverso la realtà, ci viene incontro e siamo capaci di ospitarla e di imparare da essa. Su questa base, dentro un confronto continuo con gli altri, se tesi ad un ascolto reciproco e ad un positivo, mutuo riconoscimento, possiamo ritrovare lentamente questo sguardo unitario.
Nel suo discorso alla città, in occasione di Sant’Ambrogio, ha messo la Genesi alla base della sua riflessione su una circostanza quanto mai “secolare” come appunto Expo 2015. Perché?
L’Expo mette in campo più categorie, l’alimentazione, la vita, l’energia, il pianeta. Ma ciò che serve di più, anche in questo caso, è un tentativo di riflessione unitaria. Il problema che ritorna è quello del nostro rapporto col creato. Secondo una certa critica al libro della Genesi, proprio il tema biblico del dominio dell’uomo sul creato sarebbe responsabile di quell’antropocentrismo rapace, da cui dipende lo sfruttamento del pianeta che oggi è sotto gli occhi di tutti. Ma, se si leggono bene i due racconti della creazione, è evidente che i fattori in campo sono tre: Dio, l’uomo, il pianeta. Dio non cede all’uomo e alla sua potenziale ingordigia la custodia del pianeta, ma lo invita − e la Sua compagnia nel Santo Natale ne è l’espressione più potente − a viverlo come una dimora.
Da cosa dipende allora la crisi nella quale ci troviamo?
È vero che per decenni abbiamo vissuto in termini predatori il rapporto col cosmo, e questo ha prodotto una reazione diametralmente opposta, quella di una sacralizzazione del cosmo, per cui toccarne anche solo un particolare vuol dire distruggere. Ma la consegna data da Dio all’uomo viene espressa inequivocabilmente dal Libro della Genesi nei termini della cura: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2, 15). È invece proprio la sacralizzazione del cosmo ad essere pericolosa, perché giunge a mettere tutte le forme di vita esistenti sul pianeta sullo stesso piano. Le conseguenze sono evidenti. E preoccupanti.
Secondo lei, quale salto di coscienza e di maturazione sta chiedendo papa Francesco ai cattolici? Molti osservano che Francesco gode di un consenso nell’opinione pubblica in misura quasi superiore a quello che riscuote nel cuore di molti credenti…
La forza di questo papa è la testimonianza. Purtroppo però anche questa parola, come altre logorate dall’uso e dall’abuso, rischia oggi un impoverimento. Troppo spesso la testimonianza è stata ridotta al buon esempio, col risultato di nascondere, dietro la verità lapalissiana che il buon esempio è cosa necessaria, una svalutazione fuorviante. Testimonianza significa anche conoscenza della realtà, comunicazione della verità a cui siamo chiamati. Già Paolo VI diceva che l’uomo contemporaneo ha bisogno di testimoni più che di maestri. Non voleva con questo dire che i maestri non servono più, ma che possiamo ascoltare un maestro se egli è anzitutto un testimone. E il testimone è uno che si coinvolge in prima persona in quel che dice, proprio come fa papa Francesco.
Un testimone può davvero cambiare? Lei ha avuto testimoni che le sono stati maestri?
Ne ho avuti più di uno. Don Giussani ha avuto un grande peso nella mia vita. Fu lui a riportarmi alla fede viva dopo un periodo di meccanica indifferenza nella pratica cristiana. Ma questo fu possibile perché mi coinvolse in un rapporto di amicizia che spalancò la mia mente e il mio cuore. Il testimone è uno che ti dice non: fai così, ma: fai con me così. Il vangelo nota che per il popolo Gesù era più autorevole degli scribi e dei farisei, proprio perché era coinvolto in quel che diceva. Non a caso il grande problema di oggi è l’educazione.
Lei ha celebrato la messa della Vigilia nel carcere di Opera. Perché questa scelta?
Dio è venuto a condividere il bisogno dell’uomo a partire dai bisogni dei più poveri. In questi 23 anni di episcopato ho visitato molte volte le carceri, a Grosseto, a Roma, a Venezia e ora a Milano. Ho sempre imparato molto da chi sta in carcere. Il tempo dell’espiazione, la cui necessità i carcerati comprendono bene anche quando, come assai spesso avviene, non ha il necessario carattere medicinale, fa sì che si aprano a una coscienza della vita che fa scattare in loro le domande più decisive senza finzioni e senza difese, cioè secondo una modalità che noi normalmente non pratichiamo. Per questo, in loro, il momento del Natale è molto sentito.