Sono molte le sottolineature che l’ampio e articolato discorso tenuto ieri sera dal Card. Scola suggerisce all’ascoltatore attento. Non ho l’ambizione di elencarle tutte, ma soltanto di segnalare quella che a me pare la preoccupazione culturale di fondo, e sulla quale sarà necessario riflettere adeguatamente.
L’occasione e, per così dire, la determinazione del tono generale del discorso di Scola è stata offerta da due avvenimenti concomitanti: da un lato una riflessione, a più voci, sui temi (ormai noti a tutti) dell’Expo 2015, e dall’altro la vigilia della festa patronale di Milano, che la città ha sempre sentito in modo particolare.
Per capire le parole del Cardinale è necessario non considerare le parole iniziali come una specie di cappello al discorso “vero”, quello che comincia quando si cominciano ad affrontare i temi di maggiore attualità.
Quel “cappello” infatti, riprendendo il racconto della Creazione nel Genesi e correggendo le interpretazioni parziali che ne sono state fatte soprattutto negli ultimi due secoli, tocca una questione antropologica di vitale importanza.
Nella dialettica tra chi considera la terra proprietà privata dell’uomo, terreno della sua (onni)potenza, e chi – come l’ideologia ecologista – vuole ricondurre l’uomo da protagonista della Natura a semplice comprimario c’è, infatti, una lettura sbagliata della Bibbia (che, per inciso, è e continua a essere l’unico libro di riferimento della nostra civiltà) secondo la quale Dio avrebbe abbandonato il mondo dopo averlo creato, lasciandolo in preda a tutta una serie di dualismi: uomo/natura, stato di natura/stato di diritto, ragione/sentimento, e così via, l’elenco è sterminato.
Viceversa, osserva Scola, Dio non ha mai abdicato dal proprio ruolo di protagonista del Creato e quindi di fattore reale, concreto, nel rapporto tra uomo e natura.
Tutte questioni che, verrebbe da dire, distano mille miglia dai problemi concreti che il mondo si trova ad affrontare oggi sul piano globale, dallo spettro della fame (che non diminuisce affatto) alla sovrappopolazione, dai disastri ecologici al crescente divario tra ricchi e poveri, dalla gestione della crisi al surriscaldamento globale, anche qui l’elenco è interminabile.
Invece il nesso c’è, ed è decisivo. La difficoltà, infatti, di intervento a livello di tali questioni ha la sua radice nella stessa cultura dualista che ha caratterizzato l’epoca moderna.
L’illusione che la soluzione dei problemi dipenda da una migliore organizzazione (per esempio nella distribuzione delle risorse o nell’allestimento degli aiuti internazionali), dividendo (anche qui è solo un esempio) i bisogni “materiali” da quelli “spirituali”, ha prodotto più problemi che soluzioni.
Si dice: risolviamo il problema del pane, poi penseremo al resto. Senza accorgersi che proprio questa pedissequa applicazione del principio cartesiano conduce, inavvertitamente, a una cultura della de-responsabilizzazione della persona e della delegittimazione di fatto di quell’elemento viceversa decisivo che è la libertà personale.
Molto interessante, anche se non so quanto comprensibile a tutti, l’accenno al principio medievale del quaerere Deum: è stato cercando Dio che la civiltà europea è rinata, rendendo coltivabile la terra, sicure le strade e promuovendo quel “bene comune” che – lo dicono tutti ormai – sta all’origine del benessere, anche materiale.
Lascio al lettore la riflessione sui molti punti “caldi” offerti dal discorso del cardinale Scola (tra cui alcune eccellenti osservazioni su Milano). L’impressione più viva lasciata in me da queste parole è stata quella di una critica radicale a una cultura che cerca di risolvere i problemi del mondo usando gli stessi schemi culturali che li hanno prodotti, ossia riproducendo quel tecnologismo (o tecno-nichilismo, come lo chiama Mauro Magatti) che sta alla radice della perdita di dignità dell’uomo di oggi, sia nelle società povere che in quelle avanzate.
Colpisce, a questo proposito, l’attenzione di Scola nei confronti di tutti i risvolti, di tutti gli angoli “vivi” – come dicono i muratori – della questione: dai disturbi dell’alimentazione (comprensibili nel quadro di una considerazione complessiva della questione alimentare, e quindi non estranei al tema della fame) alla necessità di una redistribuzione non solo del cibo o del reddito, ma anche delle responsabilità civili (da cui deriva anche la qualità del lavoro) con conseguente attenzione a tutti i corpi sociali intermedi.
Anche questi temi infatti, apparentemente lontani da quello del nutrimento, sono ad esso legati a doppio filo.