Quando si consumò la “scissione” de Il Giornale di Indro Montanelli da Il Corriere della Sera, nel 1974, Enzo Bettiza ricostruì tutta la vicenda in un libro molto bello dal titolo emblematico “Via Solferino”. Bettiza era stato un corrispondente estero, un grande inviato e un grande editorialista del Corriere ai tempi della direzione di Alfio Russo e poi di Giovanni Spadolini. Con altri giornalisti, quelli che erano chiamati “l’argenteria” del Corriere, entrò in conflitto con la linea editoriale di Piero Ottone, e andò a fondare un altro giornale.



Nel suo libro, con tutta chiarezza, Bettiza faceva comprendere che per tanti giornalisti italiani, ma anche per una grande parte dei lettori di quotidiani, via Solferino rappresentava prima un traguardo e poi una sorta di “appartenenza”. Non a caso, Bettiza, dalmata di Spalato, ricordava, anche in quel libro, la sua infanzia costellata da domeniche con il padre che leggeva il Corriere e lui, ragazzino, il Corriere dei Piccoli, anche se abitava sull’altra sponda dell’Adriatico. Quello che accadeva a Spalato, accentuato da un simbolo di identità nazionale, avveniva in gran parte d’Italia, a Milano soprattutto.



Gli anni del dopoguerra della piccola e media borghesia milanese erano scanditi dalla quotidianità familiare del caffè al bar con Il Corriere della Sera sottobraccio, da Il Corriere dei Piccoli, dalla bellissima Domenica del Corriere, con le “stanze” di Dino Buzzati (che la curava personalmente) e di Indro Montanelli. Un sorta di rito laico, radicato a Milano e in gran parte d’Italia. Anche allora, quando si sfogliavano le pagine stampate con il piombo, che annerivano le mani, si diceva spesso il giornale di via Solferino o direttamente “Via Solferino”.

Quella strada centrale rappresentava in effetti uno dei punti cardinali della Milano “che contava e che valeva”, insieme al Duomo, alla Scala e alla Banca Commerciale Italiana. Legate al Corriere c’erano storie quasi memorabili per Milano, soprattutto quella di Luigi Albertini, il senatore del Regno a cui fu “strappata” la proprietà dal fascismo e che avrebbe detto, andandosene e guardando il bel palazzo di via Solferino: “Mi sopravviverà per almeno altri cento anni”.



Ora è difficile fare i conti con quell’amara frase di Luigi Albertini (da dove cominciare a contare, dalla sua cacciata o dalla sua morte?), anche se i cento anni il Corriere li ha festeggiati nel 1976. Ora la grande proprietà, con un “patto di sindacato” di ben 16 entità industriali e finanziarie (le più importanti del Paese), avrebbe deciso, tra le altre cose, di chiudere “Via Solferino” e di traslocare nella sede di via Rizzoli, alla periferia di Milano.

Non c’è dubbio che “i tempi cambiano”. Anche The Times non può più permettersi da molto tempo una prima pagina di sola pubblicità e dedicare un piccolo angolo con un minuscolo titolo, come fece nel 1953: “Ieri sera è morto il signor Stalin”. Tuttavia perdere il senso di una tradizione più che secolare, lascia sempre l’amaro in bocca e un senso di disorientamento.

Ancora fino alla fine degli anni Settanta, Il Corriere della Sera era la più grande fabbrica nel centro di Milano, con un centinaio di giornalisti e oltre quattromila tipografi che lavoravano sulla linotype. Il passaggio dal sistema cosiddetto “caldo” (quello con il piombo) al sistema cosiddetto “freddo (il computer e la fotocomposizione) cambiò letteralmente il mondo dei giornali, cambiò addirittura l’antropologia di chi “faceva il giornale”. Sparivano i tipografi (quelli che avevano preso il diploma all’Umanitaria), andavano in pensione intere categorie che avevano avuto grandi mansioni (dimafonisti, correttori di bozze) e trionfava la logica del freddo e ineguagliabile (per velocità e precisione di testo) computer. Un passo avanti nel grande meccanismo della comunicazione, ma forse un passo non ancora ben metabolizzato nel rapporto tra chi scrive e chi legge.

Forse è tutto giusto, forse è il prezzo che si deve pagare al progresso. Ma è giusto, in nome del progresso, sacrificare anche una grande tradizione? È logico per motivi di carattere economico e finanziario abbandonare dopo più di un secolo la “casa madre”? Qui il discorso diventa più complesso e sconfina nel territorio della logica e delle esigenze di gestione in un’epoca storica dove la carta stampata ha sempre meno peso nel grande “cosmo” della comunicazione.

È difficile dire se ci si dovesse concentrare sulla difesa di un bel “gioiello”, magari ripulendolo e custodendolo accuratamente, o invece inseguire concentrazioni di testate e investimenti nei new media da parte di editori “impuri”, come si è sempre detto degli editori italiani. Cioè, persone che hanno altre attività e che vogliono pure un giornale, che magari le “conforti” e le “accarezzi” mediaticamente. Il finanziere franco-tunismo, Tarak Ben Ammar, ha riservato una battuta impietosa alla proprietà de Il Corriere della Sera: “Lì non c’è un editore, ma un club di tennis o di golf, un club di amici”.

Se la ragione sociale de Il Corriere della Sera fosse diventata veramente questa, quella che Tarak dipinge crudamente, allora è inevitabile che anche “Via Solferino” diventi una specie di museo o di residence. Magari con dentro il vecchio tavolone della redazione centrale, quello che Luigi Albertini volle uguale a quello del Times. Tavolone che da anni serve solo per riunioni decorative.