La via di scampo del nostro Paese dalla crisi che lo attanaglia insieme a larga parte del mondo sviluppato – e anzi la sua possibile trasformazione in uno dei motori della ripresa anche alla scala internazionale – passa attraverso il progetto della macro-regione del Nord, che ha bisogno della vittoria del centrodestra in Lombardia. Pertanto l’esito delle elezioni in Lombardia è di cruciale importanza non solo per la Lombardia stessa ma per tutto il Paese; e non solo per le sorti di questo o quel partito, o di questo o quel candidato.
Insieme al Veneto, del tutto in controtendenza rispetto al resto d’Italia, nel 2006 la Lombardia votò a favore della riforma costituzionale che il governo Berlusconi allora in carica aveva presentato per principale impulso di Umberto Bossi. Quando poi alla sconfitta in quel referendum seguì nel medesimo anno la sconfitta del centro-destra alle susseguenti elezioni politiche, ancora una volta la Lombardia e il Veneto furono le uniche due regioni ove il centro-sinistra venne battuto. È evidentemente stato chiaro nel Lombardo-Veneto che – al di là delle rispettive eredità storiche e delle virtù e difetti personali dei vari leader – nel concreto del mondo in cui oggi viviamo il centro-destra, con la sua spinta verso più società e meno Stato, meglio risponde alle urgenze del presente.
Il centrosinistra invece, con la sua spinta verso l’assistenza anche a spese dello sviluppo, e la sua scelta di puntare tutto sullo Stato e quindi sull’ulteriore crescita di una pressione fiscale già insostenibile, propone ricette che appartengono a un passato che non torna. Beninteso, il centrodestra non è un limpido torrente di montagna, ma un fiume che riceve acqua anche da affluenti limacciosi e dà rappresentanza pure ad ambienti sorprendentemente subalterni a visioni del mondo nichiliste e gaiamente libertine che sono distruttive del meglio della sua stessa cultura (basta sfogliare un numero di Panorama o guardare i programmi di Mediaset per rendersene subito conto). Nondimeno, a differenza del centrosinistra, non è radicalmente anacronistico.
Ci si deve augurare che domenica prossima in Lombardia non ce lo si dimentichi; e che quindi l’esito delle elezioni regionali apra la via al progetto della macro-regione del Nord. Perché tale progetto è a mio avviso cruciale per le sorti non solo dell’Alta Italia ma di tutto il Paese? Perché l’esperienza ha dimostrato che il coacervo di burocrazie parassitarie statali e para-statali trincerato a Roma – la chiave del cui potere è la gestione centralizzata del fisco – non si può espugnare dall’interno. Tutti i ministri e tutti i governi anche bene intenzionati che ci hanno provato, quale che fosse il loro orientamento, hanno fatto soltanto dei buchi nell’acqua.
Anche la Lega Nord, che era andata a Roma solo per questo, ne è tornata con le pive nel sacco. Per far saltare il tappo occorre una fortissima pressione dall’esterno, e solo una macro-regione del Nord ha il tutto il peso che occorre per poterci riuscire. In tale prospettiva è molto importante la scoperta o meglio la riscoperta del fatto che un tale progetto non è una… associazione temporanea d’imprese, bensì una concreta realtà spesso sommersa ma anche sempre riemergente in tutta la storia dell’Italia repubblicana (e in effetti non senza radici anche in epoche ben precedenti).
È di grande interesse al riguardo un saggio di Stefano Bruno Galli appena pubblicato da Guerini e Associati, Il Grande Nord. Cultura e destino della Questione settentrionale, Milano, dicembre 2012. Prendendo le mosse dal 1945, dagli anni, anzi dai mesi immediatamente seguiti alla caduta del fascismo e alla fine della Seconda guerra mondiale, Galli rievoca la vicenda del movimento “Cisalpino”, nato in Lombardia in ambiente cattolico neo-guelfo e poi spazzato via da De Gasperi e dalla sua Democrazia Cristiana da subito fortemente radicata a Roma, per poi ripercorrere gli altri tre-quattro momenti in cui la questione settentrionale brevemente riemerge fino ai nostri giorni, quando sotto la spinta della crisi economica internazionale diviene irrefrenabile.
Il motivo è presto detto, dice Galli citando Luca Ricolfi: mentre ai tempi della Prima Repubblica “il rapporto tra Nord e Sud era a somma positiva per entrambi poiché le risorse per il Mezzogiorno venivano ricavate ricorrendo al debito pubblico” e quindi (aggiungiamo noi), tanto più nel quadro di un’economia non ancora globalizzata, il Sud diventava un importante sbocco interno dell’industria del Nord, adesso tale rapporto è divenuto perdente per entrambi. In una situazione in cui il reddito non cresce più, ma anzi diminuisce, il Sud si sente tradito dal Nord poiché per la prima volta vede contrarsi i trasferimenti a suo favore mentre quest’ultimo non ne vuol più sapere di finanziare i consumi del Sud dal momento che già fatica a finanziare i propri.
Occorre a questo punto una riorganizzazione radicale e rapida della spesa pubblica e della pubblica amministrazione con l’obiettivo di renderle molto più efficienti e quindi molto meno costose. La via d’uscita dalla crisi passa per la piena valorizzazione delle risorse di ogni parte del Paese, e dunque per la responsabilità fiscale e per l’impiego sul posto della maggior parte del gettito fiscale dei vari territori. Se il Nord ne ha bisogno perché la sua industria manifatturiera possa di nuovo navigare con successo nei mari agitati dell’economia globalizzata, Roma se ne può utilmente servire per trasformarsi da luogo di consumo parassita della rendita politica in centro ineguagliabile di produzione di servizi culturali ad alto valore aggiunto e in magnete di turismo qualificato a scala planetaria.
Il Sud per parte sua non è affatto a mani vuote, dal momento che il Mediterraneo si sta riaprendo e, malgrado ogni turbolenza, le economie dei Paesi del Nord Africa e del Levante stanno continuando a crescere. Hanno perciò tutte le carte in regola per diventare promettenti mercati di prossimità per un Mezzogiorno che finalmente ricominci a credere in stesso; e faccia lo sforzo di ammodernarsi di conseguenza.
La macro-regione del Nord non è insomma un progetto contro il resto del Paese. È anzi la chiave di volta della sua uscita dalla crisi. Perciò cascano le braccia leggendo, nella pagina “Idee&opinioni” del Corriere della Sera dell’altro ieri, Antonio Polito che, citando l’intervista a Stefano Bruno Galli recentemente pubblicata su Ilsussidiario.net, scrive del progetto della macro-regione del Nord come di “un’insidia per l’Italia e per l’Europa”. Senza entrare nel merito dei suoi argomenti, cui Galli ha già bene risposto sul Corriere di ieri, mi limito ad aggiungere qui che è sbagliato definire quello della macroregione del Nord un “progetto della Lega”. Certamente senza la Lega e senza l’elezione di Maroni a nuovo presidente della Lombardia non avrebbe sul piano politico la necessaria “massa critica”, ma raccoglie consenso e sostegno in un ambiente ben più ampio.