Sarà la diversa personalità di Roberto Maroni, rispetto a quella del fondatore, Umberto Bossi, a disegnare una Lega Nord del tutto diversa da quella che irruppe nella politica italiana all’inizio degli anni Novanta, con l’autentica esplosione elettorale del 1992? La risposta non si può certo ridurre a una differenza di personalità.
La Lega di quel periodo, che era ancora Lega Lombarda, è un movimento che cavalca non solo la “questione settentrionale”, ma che lancia parole d’ordine sconvolgenti nella politica italiana, mai sentite prima.
“Secessione”, si grida sul prato di Pontida, il luogo storico delle adunate leghiste. “Federalismo”, insistono quelli che non si spingono alla rottura con lo Stato nazionale, che comunque viene relegato al rango di un peso ormai insopportabile. Il tono complessivo, irrituale e spesso volgare, della protesta leghista nei primi anni Novanta non è molto differente dalle adunate dell’attuale “Movimento 5 Stelle” all’insegna del “vaffa”.
In realtà, la Lega di quegli anni coglie un desiderio di cambiamento, in modo abbastanza confuso e con qualche connotazione apocalittica, che molti vogliono nella società italiana. Di fronte a una architettura istituzionale che ormai non funziona più, i partiti della “prima repubblica” sembrano lenti, quasi spaventati dalla necessità di un cambiamento che viene dalla realtà delle cose: è crollato il “Muro di Berlino”, è finita “la guerra fredda”, non c’è più il mondo delle “vecchie ideologie”. Il nuovo assetto internazionale impone inevitabilmente un diverso assetto politico nazionale, che risponda a nuove esigenze sociali, economiche e istituzionali.
La spinta che interpreta la Lega non è solo “il localismo lumbard”, ma l’esigenza di molti ambienti della società italiana. Bossi, diventato “il senatur”, viene “accarezzato” e guardato con attenzione persino dai “salotti bene” di una Milano che non ne vuole più sapere della “Milano da bere”, per trovare una sintesi giornalistica e schematica. Dietro al folclore leghista, ci sono interessi ben più concreti che arrivano al mondo della finanza, nazionale e internazionale.
La Lega dell’epoca cavalca abilmente quella protesta e resta soprattutto un movimento, con un largo seguito al Nord, un discreto interesse nel Centro Italia e persino qualche “fiammata” al Sud.
Ora la Lega Nord di Roberto Maroni, dopo “l’anno orribile” passato, appare non più un movimento, ma un partito a “gittata territoriale” che calibra bene i suoi passi, che si dimostra pronto agli accordi scomodi per raggiungere obiettivi importanti o di sopravvivenza politica. Se si guardano le ultime mosse di Roberto Maroni, si vede nitidamente questo cambiamento di toni e di strategia. Con un realismo che non si sarebbe mai trovato nelle corde di Bossi, Maroni è riuscito a far digerire alla base leghista un nuovo accordo con Silvio Berlusconi e il Pdl, in cambio di una affermazione della Lega in Lombardia e della Presidenza della Giunta al Pirellone.
Lo stesso Maroni, da giorni, è al centro di un interesse da parte del Partito Democratico per un accordo imprecisato nel sostenere il “tentativo Bersani”, con un pre-accordo con lo stesso Berlusconi. Cose sofisticate di grande scuola democristiana.
A guardare un po’ più a fondo, ci sono diversi motivi per questa trasformazione leghista. C’è innanzitutto, come si diceva, il realismo di Roberto Maroni, nel difendere quello che è possibile: le tre grandi Regioni del Nord produttivo. Se la la spinta iniziale della Lega Nord si basava sulla “ragione sociale” della “questione settentrionale”, si può dire che Maroni ha salvato il cosiddetto “core business” del movimento leghista, lanciando un nuovo “prodotto”, la macroregione.
Ma l’analisi della “nuova immagine” leghista non si può fermare a questo. Se nel 1992, la Lega interpretava il “nuovo” (anche se in modo indistinto e abbastanza confuso) oggi quel “nuovo” non riesce più a interpretarlo. Dopo anni di governo nazionale elocale, dopo vari tentativi di dare una credibilità a questa “seconda repubblica”, anche nella Lega, soprattutto nel suo nuovo segretario, si è arrivati alla consapevolezza che si è stati artefici di un fallimento. Se la Lega Nord è stato uno dei principali sponsor di questa seconda repubblica, di fronte al fallimento che è uscito dalle urne del 24 febbraio, si deve prendere atto che non si più “nuovi” e ben altri “nuovi” sono entrati in scena. Alla fine la Lega paga una “rincorsa” al “nuovismo” che non è mai stato supportato, al di là del riordinamento federale dello Stato, da un vero e credibile piano di rinnovamento istituzionale, politico, economico e sociale.
Va infine valutato anche un ultimo aspetto: la figura carismatica del “capo”. Quando Bossi è stato “centrato” dagli scandali o dallo scandalismo che imperversano da venti anni nella Repubblica italiana, è crollata anche una figura di riferimento, che, nell’elettorato italiano, aveva sostituto il legame con le vecchie ideologie.
Il realismo di Roberto Maroni discende da questi fattori. Al momento la Lega si è salvata, è ancora presente, ha ancora un peso al Nord. Ma non ha più la spinta e la possibilità di ritornare il movimento che “non guarda in faccia a nessuno” e può destabilizzare la vecchia Italia.
(Gianluigi Da Rold)