“Si cerca la pace e si va verso gli altri perché ce la diano. Ma è chiaro che possono darci soltanto follia e confusione. Bisogna dunque cercarla altrove, ma il cielo è muto”. Così scrive, in una delle pagine dei suoi “Taccuini”, Albert Camus, Nobel per la letteratura 1957, ancora oggi il più giovane premio Nobel, di cui ricorre nel 2013 il centesimo anno della nascita.



Camus, morto prematuramente in un incidente automobilistico nel 1961, rappresenta uno delle più autentiche esperienze di confronto e scontro con la modernità. Mai lasciando, anzi mettendo sempre tra sé e il mondo, quelle attese e aspirazioni dell’umano che danno valore, se non senso, al vivere. Tra i conflitti del suo tempo, dalla seconda guerra mondiale al multiculturalismo – lui algerino-francese, piè-noir di famiglia francese – alla guerra franco-algerina, tra il pensiero relativista e inventore della modernità e nel mezzo dell’esaltazione ideologica europea del comunismo con Sartre – sempre ha posto il problema dell’io, della verità, della vita contro la politica intesa come farsi storia della cultura e del pensiero. La sua figura è al centro del ciclo “Quello che può la letteratura – Testimoni e profeti nel ‘900” Vassilij Grossman, Albert Camus e Thomas S. Eliot che il Centro Culturale di Milano ha ideato al Teatro Dal Verme.



Oggi, 6 marzo, Massimo Popolizio terrà una Lettura Teatrale antologica su Camus e ne parleranno a seguire il filosofo Massimo Borghesi, uno dei grandi conoscitori di Camus e Luca Doninelli, scrittore molto sensibile al francese. “Le cose gemono perché sono separate” dice nei suoi Taccuini (Bompiani) che abbiamo riletto per l’occasione. Magma del reale, groviglio e sofferenza nei rapporti umani, dice di sé: “Sono un individuo tortuoso. Posso conoscere la mia capacità di amare solo attraverso la capacità di soffrire. Prima di soffrire, non so”.

E’ una grande verità, ma se è vero che l’amore esige sofferenza, è pur vero che l’amore è alleato della gioia; ma, forse, questa è una verità che si conosce poco, rara. Gli sembrava così difficile trovare la via d’uscita da un simile labirinto, che portasse all’aria aperta, nella quale, di schianto, si sveli il segreto del mondo. Affermava “C’è solo il labirinto e il cielo è muto”. L’uomo respira in questo “aër nefando” e cerca di capire, come può, perché “la follia di questo ventesimo secolo consiste nel fatto che gli spiriti più diversi confondono il gusto dell’assoluto con quello della logica” e “l’intelligenza moderna è in pieno smarrimento. La conoscenza si è estesa talmente (e perciò talmente frammentata, ndr) che il mondo e lo spirito umano hanno perduto ogni punto d’appoggio. E’ un fatto che soffriamo di nihilismo”. 



Ma quali sono le cause, la ragione di questo nihilismo dove si riscontra? Annota altrove che essa è da ravvisare nella paura, più esattamente “la paura di soffrire” o anche, l’insopportabilità della sofferenza. In questa condizione rattrappita, i nuovi maîtres à penser – oggi anche anche comici o uomini nelle istituzioni – che scrivono manuali per ogni genere di problema, non sono altro che “piccoli tangheri che livellano e discutono, che pensano a tutto per negare tutto, non sentono nulla e affidano ad altri – partito, capo – il compito di sentire in vece loro”. Detto in altri termini, nella gestione dei nostri fallimenti siamo tutti autodidatti.

Secondo Camus tale nihilismo è così totalitario che ha invaso tutto: il campo spirituale, anche quello più nobile e culturale: “ll buddhismo è l’ateismo divenuto religione. La rinascita partendo dal nihilismo. Esempio unico, credo. E prezioso da meditare per noi che col nihilismo siamo alle prese”. Quello della ricerca scientifica, asservita non più al bene dell’uomo, ma dello stato: “Tutto il potere della scienza tende oggi a rafforzare lo Stato. Non uno scienziato ha pensato di orientare le sue ricerche verso la difesa dell’individuo. Eppure in questo settore avrebbe senso una massoneria” .

Almeno gli antichi greci, rammentava Camus a proposito, hanno creato l’idea della disperazione e della tragedia, attraverso il sublime, la contraddizione, la bellezza, mentre lo spirito moderno ha plasmato la propria disperazione partendo dal brutto e dal mediocre. Quel che sorprende è che la penna di Camus non scrive mai con arroganza, muove da delle certezze di esperienza. Nel terzo taccuino ad esempio annota: “Sono il più disarmato e il più bisognoso degli uomini”. A conclusioni analoghe giungeva un altro grande della letteratura francese, Paul Claudel, anche lui Nobel per la letteratura, dove in “Tête d’or” affermava: “Che cosa sono io? Che faccio? Che cosa attendo?… O cose, mi offro a voi!… Guardatemi! Ho bisogno, e non so di che cosa… Guardatemi, rispondete alla mia domanda!”.

Entrambi gli scrittori sono ossessionati dal tema dell’unità, che è al centro delle loro opere: introdurre nel mondo la giustizia, che “è un mistero, non un’illusione” (II, p.243), e l’amore, annodare quei legami di conoscenza che si sono attorcigliati tragicamente, riannodare il legame tra l’uomo e l’universo. Amare questa terra dei vivi e gli uomini che in essa gemono, donare loro la bellezza. “Si serve l’uomo nella sua totalità o non lo si serve per nulla. E se l’uomo ha bisogno di pane e di giustizia e se si deve fare quanto occorre per soddisfare questo bisogno, egli ha anche bisogno della bellezza pura, che è il pane del suo cuore. Il resto non è serio”. 

Sperare l’impossibile: forse questo è il rischio che deve correre l’uomo contemporaneo, il cui cuore è “ormai chiuso a tante cose”. Quest’uomo che “è il solo animale che si rifiuti di essere ciò che è” e che, all’anelito dell’impossibile, preferisce il gusto amaro dell’infelicità, abbandonandosi “alla sofferenza come si fa con il dolore fisico: steso, immobile, senza volontà, né avvenire, ad ascoltare soltanto le lunghe fitte del male” (II, p.246). Incapace di comprendere gli esseri, verso i quali prova, però, nostalgia, perché la vita altrui “vista dall’esterno, costituisce un tutto. Mentre la nostra, vista dall’interno, sembra dispersa. Continuiamo a correr dietro a un’illusione di unità”.

La tragedia dell’uomo di oggi, per il quale – non ci sembra inutile la ripetizione – il cielo è muto e la terra è un labirinto, non è la difficoltà del vivere ma “l’impossibilità di essere”.

Ma, ancora, riemerge, la grande voce di Camus: “Sono lontano dal bene e ho sete di unità”: la sete di unità, di essere, rimane anche nella lontananza dal bene. O nell’ignoranza di esso, perché “c’è sempre nell’uomo una parte che rifiuta l’amore. E’ la parte che vuole morire. E’ quella che domanda di essere perdonata”. Nonostante questo rifiuto, questo bisogno di amore e di unità “grida verso l’impossibile, l’assoluto, il cielo in fiamme, la primavera inestinguibile, la vita che supera la morte, e la morte stessa trasfigurata nella vita eterna” (II, p.282) 

Un uomo può non avere l’esperienza di Dio, o della trascendenza, ma può avere un’esperienza umana pungente che grida, anche incoscientemente, il bisogno di Dio: “Quando si è visto una sola volta lo splendore della felicità sul viso di una persona che si ama, si sa che per un uomo non ci può essere altra vocazione che suscitare questa luce sui visi che lo circondano… e ci si strazia al pensiero dell’infelicità e della notte che gettiamo… nei cuori che incontriamo”.

Camus non guarda con speranza al cristianesimo, forse con nostalgia, come ammise in un’intervista inedita con il Cardinale Duval, Vescovo di Algeri. Non può quest’uomo darsi o dare la felicità, ma “l’uomo che si pente è immenso”.

Soprattutto quando il pentimento è verso la donna, nel cui amore si radica l’ansia dell’eterno, e l’istinto di perfezione soggioga l’istinto di conservazione: “Una donna che ami veramente con tutta l’anima, nel dono totale di sé, cresce così smisuratamente che non c’è uomo che non diventi, in confronto, mediocre, miserevole e privo di generosità”. E nel dono totale di sé “che cosa aggiunge l’amore al desiderio? Qualcosa di inestimabile: l’amicizia”. 

Nel secondo taccuino Camus annota: “Non mi rifiuto di andare verso l’Essere, ma non accetto una strada che si allontani dagli esseri”. (II, p.83). E poco oltre: “Accostarsi a Dio perché ci si è disamorati della terra e il dolore ci ha separati dal mondo, è vano. Dio ha bisogno di anime attaccate al mondo. E’ della vostra gioia che si compiace”, perché “se questo Dio riesce a commuovere è per il suo volto d’uomo…”. L’uomo del labirinto cerca “sempre e soltanto Arianna” (III, p.35). Cerca il Volto. Ben lo intuisce Camus allorché scrive “ristabilire morale attraverso il Tu” (II, p.82) “Bisogna incontrare l’amore, prima di aver incontrato la morale. Altrimenti, lo strazio”. (II, p.217)

Quando il Volto giunge, l’uomo ricompone se stesso, riconosce chi è, riconosce il suo destino e sa come condurre i propri passi e ci lascia con questa grande verità: “Non è a forza di scrupoli che un uomo diventerà grande. La grandezza arriva, a Dio piacendo, come una bella giornata”, con una prospettiva, forse ingenua ma che mostra una radice per la quale, a partire da questo momento “gli individui cessano di lottare e di dilaniarsi, accettano finalmente di amarsi per ciò che sono. E’ il regno dei cieli”.