L’Imu è tornata prepotentemente nel dibattito assembleare di Palazzo Marino. Qualche giorno fa, infatti, abbiamo approvato due mozioni per la riduzione a 0,76 dell’aliquota su cinema e teatri e per dedicare un apposito servizio di assistenza della Direzione Entrate del Comune di Milano agli enti non profit di piccole dimensioni e poco strutturati. In tal modo questi ultimi sono anche meglio aiutati ad attribuire a ciascun immobile posseduto il giusto versamento. Per quanto riguarda questa seconda mozione, di cui ero primo firmatario, l’aula ha espresso pure rammarico per la scelta del Governo di tassare il cosiddetto Terzo settore.
Inoltre ha impegnato la Giunta a chiedere chiarimenti all’esecutivo relativamente ad alcune parti del nuovo Regolamento che, specie per quanto riguarda le scuole paritarie, rischia di metterne seriamente a repentaglio l’esistenza. Eppure allo Stato dovrebbe interessare la salvaguardia di questa straordinaria realtà. Se non altro perché se per assurdo l’Imu costringesse le paritarie di Milano a chiudere e gli 86.537 alunni iscritti si riversassero sulle scuole statali – visto il loro costo di 7319 euro a studente – si verificherebbe un aumento complessivo di spesa pubblica pari a 633 milioni 364mila euro. Cioè quanto i milanesi hanno versato per la prima casa.
In sostanza l’Imu rischia di essere un danno per la società, ma anche una beffa per i contribuenti. Al fondo di entrambe le mozioni votate, allora, c’è l’idea che la destinazione dell’immobile ad attività di interesse generale (siano esse culturali, educative, sociali, ecc.), obbliga a ripensare la capacità contributiva dell’ente sottoposto a imposizione e, in generale, l’ordinario regime fiscale in senso premiale. Nel caso del non profit questo ragionamento è facile da comprende: è l’attività svolta che dispone dell’immobile più che il soggetto giuridico proprietario, visto che oltretutto per sua natura questo reinveste gli utili nell’opera. Perciò l’immobile non può essere considerato una fonte di ricchezza tale da giustificarne l’imposizione.
Nel caso dei cinema e dei teatri il ragionamento non è poi del tutto difforme, benché il più delle volte siamo di fronte a soggetti profit. E mi spiego subito. Quando un teatro come il Carcano subisce contemporaneamente un aumento del 154% di Imu e del 27,62% di Tarsu, cui si aggiungono un significativo aggravio causato dal Cosap, dovuto per l’occupazione di suolo pubblico durante i frequenti montaggi e smontaggi delle scenografie, e dall’imposta sulle insegne pubblicitarie (che può variare dai 5 ai 18 mila euro annui), si comprende facilmente che anche in questo caso la tassazione rischia di far chiudere i battenti a chi “produce” cultura. Si viene a creare, così, quel paradosso per cui enti sottoposti ad una scriteriata pressione fiscale sono poi indotti a richiedere assistenza sotto la forma di finanziamento pubblico.
È per questo motivo che avevo presentato un emendamento alla mozione relativa ai cinema ed ai teatri perché la Giunta Pisapia si impegnasse a presentare ai consiglieri, entro sei mesi di tempo, una serie di provvedimenti che prevedessero per i teatri riduzioni anche sugli altri tributi dovuti all’amministrazione.
Le agevolazioni su Tarsu, Coasp e imposta sulle insegne pubblicitarie, però, dovevano essere legate agli stessi criteri con cui oggi il Comune stipula convenzioni con i teatri milanesi (coinvolgimento del territorio, delle scuole, coproduzioni, formazione dei giovani, ecc.). Attualmente il rispetto di questi criteri comporta contributi pubblici che, nel caso di un’approvazione del mio emendamento, sarebbero potuti diminuire, in modo da coprire le agevolazioni tributarie eventualmente approvate. La sinistra ha preferito bocciare questa proposta, confermando una posizione paternalista anche nella pur giusta intenzione di alleggerire il carico fiscale di cinema e teatri.
La maggioranza arancione è di fatto contraria al principio della sussidiarietà fiscale. Quel principio ben sancito da alcune sentenze della Corte costituzionale tedesca, come ricorda il costituzionalista Andrea Pin proprio nel Libro Bianco sul Terzo settore. In sostanza: il fisco non può essere così iniquo da privare i cittadini dei mezzi necessari all’auto-sostentamento per poi trasformare loro in assistiti. La libertà della persona, singola o associata, prevale sulla pur benevola tutela dei cosiddetti diritti sociali da parte dello Stato. È questa un’interessante indicazione che ci viene dall’Europa per poter ripensare tutto il nostro sistema di welfare. Specie quando le risorse pubbliche cominciano davvero a scarseggiare.