Caro Direttore,
il ministro Profumo riprende in questi ultimi giorni di mandato la proposta di riduzione del percorso scolastico di un anno, per fissare la conclusione degli studi superiori ai 18 anni. Non è un’idea nuova, come noto. Il primo a provarci fu Luigi Berlinguer, e da allora sono passati tre lustri. Il tema è complessissimo, ma si può collocare qualche paletto per proseguire la riflessione.
1. Un anno in meno non è automaticamente sinonimo di maggiore o minore qualità. In Europa convivono tre modelli: ingresso a sei anni, tredici anni di scuola e diploma a diciannove anni; ingresso a sei anni, dodici di scuola e diploma a diciotto; ingresso a cinque anni, tredici di scuola e diploma a diciotto. Le ricerche internazionali non permettono di dire che uno di questi modelli assicuri di per sé risultati migliori. Più che il numero di anni o l’età di ingresso e uscita, insomma, conta quello che si fa durante la propria permanenza nei percorsi di istruzione e formazione.
2. I dati su livelli di apprendimento e dispersione scolastica ci dicono, in maniera perentoria, che nel suo complesso la scuola del secondo ciclo in Italia non funziona bene e che occorrono interventi forti (anche) su questo segmento, soprattutto su istruzione tecnica, istruzione e formazione professionale. Non basta assicurare più risorse, il che sarebbe ovviamente positivo, occorre invece un ripensamento complessivo che adegui la nostra scuola superiore alla realtà odierna.
3. Le risorse, diciamolo serenamente, sono quelle che sono. Prometterne di più è un buon esercizio retorico e può servire ad ergersi a paladini della scuola, ma alla prova dei fatti rischia di restare sempre poco quel di più che eventualmente si riuscisse a consegnare alle scuole italiane. In questo contesto sembra difficile immaginare una riforma complessiva della secondaria di secondo grado centrata sul conferimento di maggiori risorse: né questo sarebbe da solo bastante a dare maggior stabilità e sicurezza al sistema. Occorrono invece coraggio, competenza e intelligenza per ripensare l’esistente a partire prima di tutto dalle risorse che ci sono. La proposta di ridurre a quattro gli anni di secondaria, sotto il vincolo di mantenere intatte le risorse complessive di organico e finanziamenti, metterebbe in condizione di progettare e realizzare quattro anni scolastici decisamente più efficienti degli attuali cinque (ad esempio potenziando gli strumenti di orientamento e di raccordo tra diversi indirizzi di studio per ridurre la dispersione scolastica; e rinnovando la didattica e l’organizzazione interna degli istituti con la realizzazione di un organico dell’autonomia che permetta di lavorare per classi aperte e di consolidare i percorsi di recupero e potenziamento).
4. Il Partito Democratico ha fatto sua l’ipotesi di conclusione a diciotto anni in diversi contesti, nazionali e locali. Lo scrive chiaramente Giovanni Bachelet nell’introduzione al volume Idee ricostruttive per la scuola, che raccoglie i materiali prodotti dal Forum Politiche Istruzione PD nel trennio 2010-12: «[All’interno del Pd] sui cicli scolastici esistono ampie aree di dissenso su come realizzare la conclusione degli studi a 18 anni; l’idea però di finire a 18 anni, colmando anche qui lo spread con l’Europa, è risultata largamente condivisa». Anche il Pd di Milano ha lavorato sul tema del riordino dei cicli, formulando una proposta complessiva che combacia in larga parte con le riflessioni degli esperti chiamati dal ministro Profumo a lavorare sul tema: ingresso a sei anni e uscita a diciotto, con riduzione di un anno della secondaria di secondo grado e utilizzo delle risorse recuperate per avviare un riordino complessivo dell’organizzazione e della didattica. Sul punto sono diversi anche gli interventi di Marco Campione, responsabile istruzione del Pd lombardo.
L’obiettivo, insomma, non è impiegare un anno in più o in meno; ma imparare meglio e imparare tutti, colmando soprattutto il divario esistente in termini qualitativi e di promozione sociale tra l’istruzione liceale e tutto il resto. Difficile? Molto. Ma non sembra che questa possa essere l’epoca delle soluzioni facili.