Pare di sentirli quelli della bocciofila di via Padova: “Secunda mi l’è una gran pirlada”. La “pirlada”, che non ha bisogno di traduzioni, sarebbe l’idea del sindaco Pisapia di dare una casa popolare ai rom. E con che convinzione lo dicono quegli anziani, tra un bicchiere di bianco e un tiro al volo. Ma il loro non è anzitutto razzismo. I milanesi, che sui rom ne hanno viste e sentite di tutti i colori, sono diventati scettici sull’argomento. Prima i campi autorizzati dal Comune, poi l’integrazione scolastica e adesso la casa. Da quando venivano chiamati zingari, “singul” (come si usava terun per la gente del sud; allora non era di moda il politically correct), è passato tanto tempo e di tentativi di integrazione ne sono stati fatti tanti, con vari approcci e in vari settori. Tutte le amministrazioni, di tutti i colori, ci hanno provato, tutte senza successo. Bisogna capirli allora i milanesi. È l’idea in sé che suona loro strambra. Nell’immaginario collettivo, la proposta di Pisapia non funzionerà mai semplicemente perchè è sbagliata alla radice: essa infatti non tiene conto di alcune cose essenziali. Innanzitutto di quello che sono e di quello che realmente vogliono i diretti interessati ai quali è rivolta. I nomadi amano la libertà, non vogliono sentir parlare di vincoli e restrizioni (te li vedi a un’assemblea di condominio a discutere di preventivi?).
L’approccio, in effetti, è pesantemente schematico. Al fondo è come dire: stabilisco io di cos’hai bisogno e te lo fornisco, così risolvo il problema. Va però detto che la proposta di Pisapia non è del tutto inedita. Ci aveva già provato la Moratti, con l’assessore Moioli, a offrire un alloggio popolare ai rom, aprendosi la strada con lo slogan “solidarietà nella legalità” e la sottoscrizione di patti che prevedevano il rispetto delle più elementari regole di convivenza civile. Ma, anche così sfumata, l’idea non passò perché a Palazzo Marino c’erano i guardiani della Lega che fecero muro. La Moioli, divenuta famosa perché voleva insegnare ai rom a “farla nel buco”, si scontrò con difficoltà enormi, le stesse che prima di lei incontrarono altri sindaci e assessori.
Da Pillitteri in avanti, nessuno escluso. Le politiche per i nomadi – con buona pace della Caritas – sono tutte fallite. Sono falliti i campi autorizzati, che in poco tempo si trasformano regolarmente in latrine a cielo aperto, vere e proprie bombe ecologiche in città. Per non parlare dello scandalo che ogni volta suscita la cifra pagata dal Comune per la manutenzione di queste aree (una decina di milioni di euro all’anno); in casi come questo non si riesce a nascondere anche una certa rabbia visto che molto spesso l’impegno del Comune viene subito vanificato da vandalismi e furti operati dagli abitanti stessi dei campi. Sono falliti anche i tentativi di integrazione scolastica, compresi quelli per il trasporto dei bimbi rom dai campi a scuola.
Qualche anno fa, in un caso si arrivò persino al paradosso. Accadde nella zona di Baggio. Visto che il pulmino circolava vuoto (perché nessuno rispettava gli orari del passaggio) si pensò di metterne a disposizione un secondo che transitava negli stessi punti un poco più tardi. Per farlo, tuttavia, l’amministrazione cittadina dovette toglierlo alle famiglie milanesi che ne usufruivano. Apriti cielo. Pisapia, Moratti. A Milano non c’è mai stato un sindaco capace di imporre alcunché ai nomadi.
Ovvio che non è facile far digerire ai milanesi l’idea di dare una casa ai rom. Milanesi che fanno fatica perfino a immaginare uno stile di vita come quello dei rom, tanto è distante dalle loro abitudini e dal loro pragmatismo. Milanesi che pensano che dare la casa ai nomadi sia una contraddizione in sé. Ragionano così: se uno preferisce vivere in una roulotte e rinuncia ai confort di una casa (che almeno in inverno ha i suoi vantaggi) deve avere i suoi buoni motivi. Ci deve essere qualcosa di più importante delle comodità a cui rinunciano. E questo qualcosa pesca in profondità, nella mentalità e nella cultura nomade.
La saggezza meneghina ricorda tanto un vecchio film del regista rumeno Emil Loteanu. Il film si intitola I Lautari ed è dedicato appunto al popolo nomade. Toma, uno dei protagonisti, muore senza aver abdicato in nulla a se stesso e al proprio destino, nonostante le mode occidentali abbiamo notevolmente mutato la vita del suo popolo.