Perché ridire qualche parola prima della lettura che si ripropone a Milano dei testi poetici per inquadrare la ineludibile personalità di T.S. Eliot, fra le più grandi del Novecento e della modernità intera. Siamo in presenza di un interprete della massima lucidità del secolo dei genocidi e delle persecuzioni e dell’atomica, il quale, al contempo, anziché arrestarsi allo sdegno e alla maledizione, si è incaricato di rinvenire le tracce disperse o devastate del senso e di mostrarne, se non l’evidenza o la vitalità, di certo la praticabilità nel presente, anche nel deserto di un mondo guasto. 



“… eppure mai seguendo un’altra via”, proprio questo verso de I cori Da la Rocca ne presenta la grande attualità e insegnamento che il Centro Culturale di Milano mette a tema e conclusione del suo ciclo di dibattiti e letture “Quello che può la letteratura”. È possibile, sì, a patto però di imboccare la via della fede religiosa dei popoli d’Europa, cioè della fede cristiana dei santi e del sangue dei martiri che hanno fatto germinare l’albero materiale e spirituale della tradizione europea classica, ebraica e cristiana. Il contributo recato da Eliot è appunto quello dell’uomo di cultura che ha saputo unire acume critico e coraggio intellettuale indispensabili per sottrarsi ai ricatti dell’ideologia d’ogni specie, dai totalitarismi pagani allo scientismo tecnologico, al fondamentalismo politico-religioso, alla pedagogia di Stato, alla Legge; idoli che, al contrario, esigono abilità, brillantezza, arguzia, mondanità oppure morbidezza, affettazione, accondiscendenza, ma non sono disposti ad accettare il pensiero certo, profondo, argomentato, pacato che si fonda su un’esperienza autentica, un pensiero mai riducibile al potere perché incardinato nel desiderio originale di verità. 



Sia chiaro: definendo l’aristocratico e affabile Eliot “uomo di cultura”, siamo lontanissimi dal tipo del libero pensatore o dell’intellettuale organico o impegnato o del giornalista di grido o dell’esteta – uomini accomunati da smania di compensi e venerazione del potere, interessati soltanto agli schemi teorici, alle analisi, all’indagine soggettiva, alle conversazioni da salotto o alle chiacchiere da talk-show, allergici a tutto ciò che sa di reale ed esterno a sé, connotati dall’odio per il popolo o almeno dal fastidio e dal disprezzo che le élites illuminate dimostrano nei confronti delle “masse”.



Adesso finalmente possiamo dire la parola che lo ritrae compiutamente: eliot fu poeta, con ogni probabilità il maggiore del XX secolo. Poeta immenso, certo, ma alla maniera e alla sequela di Dante e dei profeti biblici, di coloro cioè che esercitarono in massimo grado la facoltà intellettuale, col soccorso della potenza immaginativa e allegorica, con l’esercizio delle virtù morali e con l’instancabile impulso a communicare (lo diciamo con due emme perché in latino vuol dire “mettere in comune un bene importante”) il retto giudizio, a servire, a costruire, e ricostruire, il nostro povero mondo per renderlo nuovamente abitabile. 

E a ricordare che il tempo non va “ammazzato” né maledetto, che il tempo non è mai “libero” (= vuoto) e non è nemmeno denaro, ma è di continuo attraversato dal destino, cioè da un fine ultimo ed eterno che al tempo dà senso e di cui a ogni istante ci troviamo al cospetto. 

Anche in questo caso, siamo agli antipodi del poeta languido e raffinato, ricercato, strettamente professionale, conchiuso nel proprio circuito formale ed esclusivo. Eliot, un americano a Londra divenuto suddito di Sua Maestà britannica, è un poeta impuro, e non certo perché incurante della forma – in arte la forma è (quasi) tutto –, ma perché preoccupato soltanto di dare forma visiva all’essere, di significarne la beltà. A ben vedere, la sua conversione al cristianesimo (accolto nella High Church of England nel 1927) è in effetti rinuncia definitiva a una poesia romantica e simbolistica della pura, irrazionale soggettività, dell’insanabile dualismo di io e mondo, e finalmente spalanca alla poesia la via regia della conoscenza e del giudizio della realtà, ossia dei fini e dei significati dell’essere. 

Nulla, nessuna circostanza, nessun oggetto materiale o condizione spirituale dell’uomo contemporaneo, per quanto orrendi o vili, restano fuori dai suoi componimenti, dai suoi poemi, dai suoi drammi in versi, anzi, sono ogni volta oggettivati e trasfigurati nel loro senso, nella loro traiettoria possibile. Così come non viene estromessa o sottaciuta la presenza esplicita della fede cristiana e della Chiesa – prescindendo dalla confessione anglicana o cattolica – quali realtà permanenti da cui soltanto ricominciare a sperare per riedificare la città dalle macerie: la città, cioè l’architettura ospitale del significato. Non è un caso, evidentemente, se un lettore speciale qual è stato don Luigi Giussani abbia colto nei Choruses from “The Rock” quell’interrogativo tremendo – “è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?” – che deve scuotere il torpore nichilistico che avvolge tanti cristiani tuttora e dal quale è possibile tornare a tessere il filo di una coscienza personale ridestata e ragionevole che sperimenti la presenza affettuosa di Gesù.

L’intera opera di Eliot testimonia di un pensatore che insegna a “vedere le idee”, così nei numerosi saggi critici, come nelle Lectures universitarie e negli scritti di riflessione sulla cultura e sull’educazione, nella cura editoriale e nella scrittura di “Criterion” (1922-1939), il periodico militante di letteratura, di economia e di politica denso di prove poetiche e di giudizi precisi e lungimiranti sui regimi totalitarii in camicia nera o bruna o avvolti dalla bandiera rossa, meglio: mettendo a paragone serrato fascismo e marxismo, ossia le massime elaborazioni teoriche moderne applicate alla dottrina dello Stato, riguardati con l’occhio non del filosofo dialettico, bensì dell’homo religiosus che ne scorge la radice empia e anticristiana e ne condanna la volontà di sradicamento e di dominio totalitario sulla civiltà tradizionale. 

Proprio per questo, mercoledì il Cmc ripropone l’incontro e l’ascolto, accanto alla bellezza dei brani di poesia, anche di stralci della lucida prosa eliotiana.

Se è vero che certi dettagli rivelano un cuore, dettagli come una dedica o un esergo ad apertura di libro, ecco, mi permetto di offrire a tutti qui il celebre e stupendo frammento 2 di Eraclito, che Eliot appone in tono profetico a quel capolavoro assoluto che sono i Quattro quartetti:

Benché il Logos sia universale, la maggior parte degli uomini vive come se avesse una saggezza propria… per questo gli uomini sono in disaccordo con il Logos, anche se esso è il loro costante compagno”.


Nell’ambito del ciclo “Quello che può la letteratura. Testimoni nel 900 per la città contemporanea” il Centro Culturale di Milano organizza per mercoledì 3 aprile un incontro dedicato a Thomas Stearns Eliot, con letture di brani da parte di Sandro Lombardi e, a seguire, un dialogo con Davide Rondoni, poeta, e Salvatore Veca, filosofo. Maggiori informazioni su http://www.centroculturaledimilano.it