Ha salutato tutti con il tempo della sua musica e anche nell’omelia di don Roberto Davanzo le parole delle sue canzoni sono state ricordate, citate letteralmente, diverse volte. Milano, nella sua Basilica di Sant’Ambrogio, ha reso omaggio, con una grande partecipazione popolare a Enzo Jannacci. E a pensarci bene non poteva che essere così.



Il pallido e velato sole di questa primavera in ritardo sembrava avvolgere con le sue tinte tenui l’addio, grandioso e al tempo stesso discreto (veramente milanese), di chi ha interpretato in modo ineguagliabile lo spirito autentico di Milano. La morte di Jannacci sembra aver avuto l’effetto di uno scappellotto sulla testa un po’ frastornata di uomini e donne che, pur vivendo a Milano, avevano quasi dimenticato le radici di questa città, quei memorabili anni Sessanta del Dopoguerra, quando Jannacci entrò in scena rivendicando, cantando la sua e la nostra identità.
Mentre il funerale terminava, una banda suonava una canzone triste e tenera di Jannacci “E l’era tardi”. Ma per i milanesi non era finalmente tardi per riscoprire in questi giorni, attraverso quello che Enzo Jannacci aveva scritto, fatto e cantato nella sua vita, una parte importante delle proprie radici, della propria anima. Jannacci non era solo un grandissimo artista, ma anche il testimone di una memoria che oggi sembra spesso ottenebrata da una cultura aggressiva, cinica, individualista, schematica, l’esatto contrario della milanesità. Lui ha sempre replicato a questa subcultura dilagante, con la grande ironia milanese e con la sua grande tenerezza, la sua grande comprensione per gli altri, per le disgrazie degli altri. E probabilmente è riuscito a smuovere un po’ della “crosta” che ci opprime tutti in questi tempi.



Una delle ultime volte che l’ho visto (mi si permetta un ricordo personale) ridevamo insieme sulla dizione “farmaco etico” oggi in voga. Lui, eccellente cardiochirurgo, oltre che artista, stroncò con “questa l’è proprio bella” e poi mi scrisse un suggerimento tradizionale per disturbi gastrici su un foglietto. Jannacci era l’esatto contrario della prosopopea e di questo altro aspetto irritante della cultura di oggi: la demagogia enfatica, fabbricata con parole da lucidi ubriachi. Ormai il biglietto del treno è un “titolo di viaggio” e timbrare significa “obliterare”.



La cronaca di un grande funerale impone l’elenco dei presenti “importanti”. Diciamo subito che c’erano tutti “quelli che contano”, dal sindaco al presidente della Regione, agli amici artisti. Ma quello che più ti impressionava, non per ridimensionare la presenza di “quelli che contano”, erano facce invecchiate con un sorriso velato dagli occhi umidi per la commozione.

Erano antichi amici del bar “Gattullo” di Porta Lodovica, dove si poteva mangiare lo “special”, guardare le ragazze che entravano, ridere insieme a Gaber, Pozzetto, Cochi e tirare tardi, parlando del Milan: “Sto Rivera che ormai non mi segna più” cantava in una canzone struggente “Vincenzina e la fabbrica”.

E’ un flashback continuo di ricordi quello che ti assale nella navata di Sant’Ambrogio, mentre si assiste alla messa. I rapporti personali si intrecciano alle sue ballate, ai suoi spettacoli dal vivo, ai suoi film. Chi si ricorda Jannacci che canta ne “La vita agra” ? Era un bel film di Carlo Lizzani, tratto dal romanzo di Luciano Bianciardi, con due grandi interpreti: Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli. Enzo compariva, chitarra in mano, in due locali “cult” degli anni Sessanta milanesi: “La parete” e le famose “Sorelle Pirovini”. E chi si ricorda uno splendido Jannacci protagonista ne “L’udienza” di Marco Ferreri, con Claudia Cardinale e Ugo Tognazzi ?

Oggi quelle recitazioni ti sembrano qualche cosa in più rispetto al grande compositore della ballate in milanese e in quella nuova lingua del “boom economico” che Jannacci inventò. Ma in realtà sono un altro aspetto di una genialità artistica poliedrica che Jannacci aveva come talento donato veramente da Dio.

Il fatto è che mentre partecipi alla messa e vedi la gente che sta intorno a Enzo, ti rendi conto di quanto Jannacci sia vicino al tuo modo di pensare e quanto abbia inciso nel tuo modo di pensare. Certo, sei in San’Ambrogio, la Basilica più importante di Milano, ma ti viene in mente la sua canzone: “Prete Liprando”, che va in Sant’Ambrogio dall’Arcivescovo Grisolano “ladro e simoniaco, venduto all’Imperatore”, che aveva fatto “la prima Crociata e anche la terza, la seconda no perché ero malato”. Sei in chiesa commosso e ti viene in mente la “Veronica”, il “primo amor di tutta via Canonica”, “Porta Romana”, dove c’era “el me ziu che tampinava una filovia”. E poi ancora l’Idroscalo, Rogoredo, l’Ortica e l’Armando e la bellissima “Sopra i vetri”, dove la sua donna gli ha rubato tutto, persino il Ddt contro le mosche, le sigarette, i materassi e i coltelli. E lui conclude: Cosa faccio, anima mia ? …Io ti denuncio”.

Troppo grande Enzo Jannacci, indimenticabile: “Si potrebbe andare veramente tutti al tuo funerale”. Quando il feretro se ne va verso il Famedio del Monumentale, sei sempre lì, con le lacrime agli occhi e un dolce sorriso di ricordi. Come dicevano i vecchi milanesi, che tu conoscevi bene: caro Enzo, che la terra ti sia lieve.