Il Centro Culturale di Milano dall’11 al 14 aprile propone una “4 giorni per Testori”, organizzando il Convegno “Il senso della nascita. Una consegna” e una Mostra dal titolo “Una cultura per respirare”, nel quadro delle manifestazioni del Cartellone XX Testori per ricordare i 20 anni dalla scomparsa di Giovanni Testori (12 maggio 1923 – 16 marzo 1993). Interverranno Fulvio Panzeri, Laura Peja, Davide Rondoni, Vittorio Sgarbi, Elena Pontiggia, coordina Luca Manes.
In occasione della riedizione de “Il Senso della nascita di Giovanni Testori, Colloquio con Luigi Giussani”, BUR. In questo libro-colloquio, Giovanni Testori e Luigi Giussani risalgono al Mistero del venire al mondo, come istante, ripetizione di quell’unico istante, di quell’unica nascita che, sola, dà senso e significato a tutte le altre nascite. È il Natale che si ripete in ogni parto, nella perdita e nel sacrificio di ogni atto d’amore, dove l’intervento creativo viene accettato e accolto. Soltanto la coscienza di questa appartenenza, di questa residenza nel corpo di Cristo, accettato e riconosciuto, dà significato al nostro essere al mondo.
Bisogna dirlo. Credo che non bisogna aver paura di dirlo; perché sono cose che se si pronunciano nella speranza diventano di per sé sacre. Ecco: c’è un momento di sperdutezza in un uomo e in una donna che si amano; di sperdutezza e di liberazione.
Chissà quanto dolore e fatica c’erano dietro e dentro di loro prima di quel momento.
Non so se è giusto; io provo a dirlo; poi, magari, lo toglieremo e lo correggeremo. Una giornata di lavoro. Mio padre lavorava; mia madre aveva già altri figli; e poi là, nel letto, dove sono nato che è lo stesso letto dove dormo adesso, lo stesso letto dove sono morti loro, dove si sono amati, dove hanno unito questa loro fatica e questo loro affetto, questo loro amore, e sono diventati secondo quel che è detto anche nei libri santi “un corpo solo e un’anima sola” e hanno probabilmente liberato la loro fatica nel loro amore, il loro dolore nella loro gioia, perché gioia è, si può dire, anzi credo che si debba dire, che questa è gioia; grande gioia e anche sperdutezza; cioè una gioia che va oltre quella che si sa, quella che si comprende, quella che si conosce.
In Testori c’è sempre stata questa sperdutezza, questa vertigine, il sentirsi perduto nel dolore del mondo, la vicinanza al dolore e alla croce degli esiliati, degli ultimi, degli sconfitti, dei disperati. Ma, insieme, il tentativo di risalire fino al grumo originario della vita, all’atto d’amore che permette agli uomini di accettarsi, di accogliere il proprio dolore in quanto figli.
È il solo modo per uscire dai “meccanismi” del potere e della modernità, dalla disperazione, dal non-senso: essere coscienti fino in fondo della nostra origine.
A questo punto, secondo me, s’inserisce un tema che è legato a tutti gli altri, e che forma una caratteristica, per dir così, cieca della cultura moderna e che mi pare abbia toccato persino la vita dei cristiani: cioè l’astrazione.
Noi non calcoliamo quanta distruzione, quanta morte, quanti delitti, quanti assassinii vengono compiuti attraverso l’astrazione.
Ma, al fondo, cos’è quest’astrazione?
E’ il tentativo di ridurre il grumo iniziale, cioè il grumo totalmente sacro e divino, il grumo che procede, si sviluppa, cresce, diventa bambino, giovane, adulto, operaio, studente, professionista, padre, madre, fa figli, oppure no, comunque è lui, quel lui che Dio ha voluto fosse quel preciso, unico, irripetibile grumo di anima, di carne e di grazia, quel grumo per liberare il quale lo s’è glorificato ed esaltato come grumo di materia e basta, cercando, ma senza riuscirci, di togliervi la presenza non eliminabile di Dio, dell’Eterno, del Totale; bene, tutto questo, nemmeno lentamente, anzi velocissimamente, con un processo sempre più terribile, ha portato verso il non più riconoscimento della materia e il non più rispetto neppure del grumo esclusivamente materiale, se è possibile separare un’unità così inscindibile.
Ma per questa cultura, come per qualsiasi cultura simile a questa, non è stato possibile: il grumo senza Dio è un non-grumo, è non-vita, è non-uomo. Così s’è arrivati forzosamente a una cultura astratta; una cultura che dice di occuparsi dell’uomo, perché è l’unico alibi che essa ha; ma in realtà procede contro l’uomo e contro sé stessa. Oggi siamo a questo.
È contro questa astrazione che nascono tutti i testi di Testori. Il suo è un tentativo di non chiudere mai la realtà nella determinazione della forma, o nell’astrazione dell’idea, ma il penetrarla, l’attraversarla nel suo fisico e carnale grondare di sofferenza e felicità.
È un impatto, uno scontro conoscitivo che mira alla verità delle cose, del loro esserci, attraverso l’immersione negli strati e nei livelli della materia: è l’origine, da sempre, a interessare Testori. Il primo testo della trilogia degli Scarozzanti, l’Ambleto (1972), è un dramma sul potere.
L’Amleto testoriano è un disperato, la cui esistenza si presenta “costruita come una piramida: una piramida che contraddice il senso stesso della nascita di ogni uomo ove mai questa nascita dovesse avere un senso”. Una piramide di ingiustizie, soprusi, assassinii.
Una disperazione che proviene, in fondo, da un troppo amore per la vita. Così Ambleto tenta di tornare all’attimo iniziale, al momento della propria nascita, là dove, in realtà, amore e creazione erano già state separate. La tragedia dell’Ambleto è quella di un uomo che nasce da un atto di dimenticanza, di non riconoscimento. Da un atto di potere.
Eccota, sempre più petitto; sempre più petitto… Me vanno indidentro le dida; il crapino va indegiù, in del zerchietto del collo; le gambe se impiastrano su tutte; entrano indidentro delle ciappette; i pormoni se sbassano in del pilorio… I occi, anema! Ho più no i occi! Ecco, ‘desso sono lì, ‘me ‘na strollata de carna senza forma, né niente… Podaria essere ‘na roba perduta in de su i prati da una qualche bestia ingravedata. Poi, petitto a petitto, anca quello che paro se stringe su, se suga; e stringerti che te stringo, sugati che te sugo, eccota, devento ‘me ‘na cicata de tisego; devento ‘me el bianco degli ovi quando se mangeno i ‘spargi… ‘Desso sono anca de meno. Sono ‘pena ‘na goccia, ‘na goccia tutto collosa e sborenta… Cos’è che me tira indidentro, ‘desso? Cos’è che mi sorbe su e m’obblìga a entrare in ‘sta montagnetta de carna rossa? Cos’è che m’obblìga a entrare indidentro a ‘sto buso? Cos’è? Iutami, anema! Iutami! Se non mi iuti, non mi vedarai più!
Dalla goccia compare poi lo spettro del padre, che lo chiama: “Filius…”, rivelandogli la verità della morte, dell’avvelenamento, e dando il via alla rivolta di Amleto, alla sua azione distruttrice, che lo induce a “spetasciare” tutta quanta la “piramida”. È un monologo dell’essere o non essere trasformato in nascere o non nascere, in memoria o dimenticanza della nascita.
Ma, la dimenticanza è già nell’atto d’amore, nella non accettazione di quella sperdutezza, e dunque anche di Colui che la compie, o che può compierla, dell’intervento creativo dentro la goccia, dentro la nascita.
È una dimenticanza dell’Origine nell’origine stessa, che rende l’uomo solo e dimentico.
Ambleto si muove in questa condizione, dentro questo scacco. In coincidenza con la campagna per il referendum sull’aborto, che si è svolto in Italia nel 1980, Testori effettua la stesura del Factum est (1981), un poemetto in difesa della vita nel grembo materno.
Strutturato in quattordici canti che scandiscono le tappe di una sorta di Passione.
È il grido di un feto che chiede di poter nascere, che domanda e urla alla madre di non negare, e che, nella sua identificazione con il “Christus patiens” chiede, per essere liberato, e accettato, la collaborazione dell’uomo.
È l’uomo, dimentico, a negare questo disegno, a non accettare la nascita, il senso e l’origine di essa: «So, papà:/ io sono peso,/ peso vero;/ son fatica,/ son legame;/ da portare/ son legname;/ son catena;/ sono pena,/ ma,/ domani?/ Tu la vita,/ padre,/ ami?/ Forse un giorno/mi vedrai/ e dirai:/ «lasciar lui?/ Averlo mai?/ Mio bambino,/ vitellino,/ mio gattino…».
Il feto negato, crocefisso, messo a tacere ancora prima di uscire dal ventre della madre, chiede, domanda una pietà, e infine maledice e annuncia rovina su quella società che non accetta e rifiuta la vita, dimentica dell’Origine che l’ha voluta e chiamata ad essere.
È un attacco alla cultura (e alla città, la Milano che cancella ogni sguardo sul nostro dolore più acuto) che ha prodotto il Riboldi Gino, protagonista di un’altra via crucis alla stazione Centrale, nell’indifferenza della notte. In Exitu (1988) è la storia di un giovane diseredato della periferia milanese, omosessuale, che, per pagarsi la droga, decide di prostituirsi. Nel delirio, nella Via Crucis del Riboldi, i ricordi si annebbiano, confondendosi nella bestemmia di chi è perso, solo, pochi istanti prima dell’abbandono. Nel cesso della stazione.
Fin quando, nella miseria più infima, nel vomito, sul vicì, il protagonista vede le braccia, le mani del Cristo sorreggerlo. Emergere dentro lo sporco, dentro i buchi delle sue ferite, per abbracciarlo. Una luce salvifica nella più bassa concretezza della materia:
Sortì fuori. Fuori venne. Per ciappàrmi. Sortìron, anzi. Ricordo no. Perchè ‘des. ‘Des che lu el cunta, finit’è. Finit’è. Et per semper. Sortìron, ecco, le di lui. Le di lui mani, sì! V’eran due. Sui palmi. Buchi due. V’eran. El m’ha ciappà in di! El m’ha ciappà in di! In di so brasch, mamma! El m’ha ciappà in di! Lu! Lu! Il mà prì dan! Dan sé brà il mà! Il mà! Anca se io son ‘pena ‘rivato a dirci: ti faccio schifo no? Merito no che te tiri l’acqua e vada giù con la merda? Ma i suoi bracci! I so! I so! I so! E i dida! I so! I so! Mi stringevan su, mamma! Mi stringevan su, papà! Fu, ecco, fu. Come quando, fu. La prima volta. In la gièsa. D’Annò in. La prima volta che. Dervii che. I làber. Per ciappàl in la. In la bucca in. Lu! El Crist de tucch i assassìn, de tucch i vacch che sèm! Ma ‘des. ‘Des che eva la dernièr. ‘Des, lu. Tucch i àlter volt cunt i usèi! ‘Des lu i a scassàva! Tucch! Eren i so làber, eren! Eren i so! I so eren che ciappàvano didentro di loro me! Di dentro di loro me! Me ego, ciappàvano! Me ego, papà! Me ego, mamma!
È il senso di una Passione, di una disperazione aperta alla speranza del risorgere, della redenzione, di una Pietà che possa, tendendo le braccia, salvare il nulla in cui siamo caduti. In seguito alle due messe in scena di In exitu – il debutto alla Pergola di Firenze e, un mese dopo, la rappresentazione nell’atrio della stazione Centrale di Milano-, in un’intervista a cura di Antonio Ria, Testori racconta che un ragazzo di Radio Popolare gli domandò: “Come mai questo Cristo?”.
E Testori rispose: “È perché è dentro tutti; è chi ci ha insegnato, chi promuove in noi due cose, che secondo me sono indivisibili: l’insurrezione nella storia, l’insorgere nella storia contro il potere che vuol accecare, che vuol livellare, che vuol omologare l’uomo, che vuol ridurlo alle sue leggi, ai suoi giochi economici, perfidi e anche tecnologici.
Quindi l’insurrezione; e la resurrezione. Sono due cose che non si possono slegare. Solo insorgendo l’uomo può risorgere e solo risorgendo l’uomo può insorgere”.
Soltanto l’abbraccio e il perdono del Cristo, il cui volto si mostra a noi nella desolazione di un vicì della stazione, nell’assunzione della croce e della passione, nel sacrificio della nostra carne, permettono il riscatto di noi, la memoria della nostra origine, il recupero del senso della nascita:
E come rischiarare la demenza, come liberarla se non gli fai ritrovare il senso di quel primo momento, di quel primo vagito, e poi il senso che è dentro, legato strettissimamente, il senso del primo vagito di Cristo, cioè di Dio che per darci memoria s’è fatto uomo? Neanche la Passione credo si possa leggere completamente se non si partecipa fino in fondo il Natale; la realtà che è il Natale (…). Lì è il nodo di tutto: la richiesta di questo ritorno a casa, che è la riconquista della memoria e anche della possibilità della meta. Allora tutta la strada che dovremo percorrere, tutto il dolore che ci sarà lungo questa strada, perché al punto in cui siamo sarà una strada dura e dolorosa, se tu hai sempre presente il momento in cui nella storia è nato Cristo, il momento della storia in cui Dio ti ha fatto nascere, il momento in cui sei nato, se lo hai sempre presente, hai in te la ragione totale, quindi la ragione affettiva, il calore e la forza per percorrere questa strada.