Per la Banca d’Italia il cattivo funzionamento della giustizia civile costa agli italiani l’1% del Pil, rallenta la crescita del sistema imprenditoriale e ostacola gli investimenti stranieri. Smaltire l’enorme mole di cause pendenti, secondo il Centro studi di Confindustria, frutterebbe alla nostra economia il 4,9% del Pil. Per il Consiglio d’Europa in Italia la spesa per la giustizia civile è superiore alla media degli altri paesi. Di questi e altri temi si discuterà oggi, venerdì 3 maggio, a un convegno della Libera Associazione Forense che si terrà a Palazzo Giustizia e vedrà a confronto un magistrato, un avvocato e un imprenditore. Sui nodi che affliggono la giustizia civile e sulle prospettive d’intervento ilsussidiario ha intervistato Claudio Castelli, magistrato, Gip del Tribunale di Milano e responsabile del progetto Innovazione della Corte d’Appello di Milano. In particolare, Castelli presiede la commissione PCT, cioè per l’implementazione del Processo civile telematico.                     



Dottor Castelli, una giustizia civile efficiente è condizione indispensabile per far fare un salto di qualità al nostro Paese. Secondo lei esiste questa consapevolezza tra i vari operatori della giustizia: magistrati, avvocati, funzionari, ecc.?
Direi di sì. Che esista un rapporto diretto tra funzionamento della giustizia civile e andamento dell’economia, è un dato ormai assodato.



Quello dell’arretrato sembra il problema più spinoso da risolvere. Cosa si sta facendo in concreto?  
Poco, purtroppo. E anche i provvedimenti urgenti che sono stati presi hanno una portata limitata. Dobbiamo però chiarire cosa si intende con procedimenti pendenti. Con questo termine non si possono intendere tutti quelli giacenti, ma solamente quelli da una certa data in poi. Per esempio, quelli pendenti da oltre due anni.

Che provvedimenti occorrono?
Occorre una serie di interventi ad hoc che riguardano l’arretrato. Le uniche norme che abbiamo, e che ci hanno fatto fare dei passi in avanti, riguardano, da un lato, il numero dei procedimenti sotto i due anni che abbiamo in magazzino e, dall’altro, una sorta di “targatura” del tipo di procedure. Quelle che mancano purtroppo sono misure straordinarie che sarebbero necessarie per aggredire l’arretrato.



Non c’è un problema di produttività?
Il problema principale del civile non è la produttività. La produttività dei giudici di primo grado, ad esempio, è tale da riuscire a far fronte a più del numero di nuovi procedimenti che sopraggiungono. Il problema è l’arretrato. Se riuscissimo ad aggredirlo con decisione, saremmo in grado di garantire una giustizia civile pressoché in tempo reale.

Come si può fare per estendere al resto del Paese le migliori pratiche adottate da certi tribunali?
Questa responsabilità fa capo al ministero della Giustizia, al quale la Costituzione riconosce un ruolo propulsore, di coordinamento, regolazione e diffusione delle buone pratiche. La riorganizzazione delle cancellerie è un buon esempio: da essa ci si possono attendere risultati significativi in termini di risparmi e miglior impiego delle risorse a disposizione.        

 

Cosa si può chiedere alla politica per risolvere i problemi della giustizia civile? 
Alla politica si possono chiedere tre, quattro cose. Meglio se coordinate, affinché diano buoni risultati. Innanzitutto evitare che in Italia la domanda di giustizia cresca senza controllo; poi l’istituzione dell’Ufficio del processo, con giovani stagisti che affiancano i giudici nel loro lavoro. A questo proposito il caso del tribunale di Milano è emblematico: la produttività è cresciuta tra il 10 e il 15% grazie all’apporto di queste figure.

 

Poi?
L’estensione del Processo Civile Telematico che, anche se non risolve del tutto il problema dei tempi, garantisce comunque dei miglioramenti, assieme a qualità, trasparenza e risparmi. Se a queste si aggiunge la diffusione a livello nazionale delle dieci migliori pratiche i risultati sarebbero davvero significativi. Francamente occorre anche un’altra cosa.

 

Quale?
Occorre abbandonare l’ottica dei grandi proclami. A cui spesso, purtroppo, non segue nulla. Quello che occorre è realizzare le cose.      

 

Ci può raccontare brevemente la sua esperienza di responsabile del Processo Civile Telematico?
Posso dire che è stata un’esperienza estremamente interessante. Per far decollare il PCT a Milano abbiamo deciso di adottare una nuova struttura, una “commissione mista”, di cui fanno parte magistrati, avvocati, tecnici, cancellieri, funzionari amministrativi, ecc. Una sorta di “comunità di pratica” in cui si affrontano assieme i problemi esistenti e assieme si cerca il modo di risolverli. Sicuramente una scelta lungimirante, che il Presidente del Tribunale, quello dell’Ordine degli Avvocati e successivamente quello della Corte d’Appello hanno condiviso.

 

Non sarà stato facile mettere d’accordo magistrati e avvocati …
Non direi. C’è stata una sorta di “cessione di sovranità”, seppur parziale, perché le proposte della commissione sono state ratificate senza problemi da presidenti e ordini giudiziari. Si è creata una comunanza di intenzioni e di modi d’agire tra soggetti, professionalmente molto diversi come magistrati e avvocati, che ha consentito di fare enormi passi in avanti per risolvere i problemi sul tappeto.