Beatriz è una donna salvadoregna affetta da lupus, una malattia autoimmune che debilita il corpo a incominciare dai reni. Da 26 settimane è incinta e il suo bambino sembrerebbe avere un ritardo nello sviluppo cerebrale. Le leggi del Salvador proibiscono l’aborto, salvo in casi estremi, e la Corte costituzionale si è pronunciata sulla vicenda affermando che le condizioni della donna vanno tenute sotto controllo, ma per il momento non sono così gravi da rendere necessaria un’interruzione di gravidanza. Le lobby pro-aborto hanno però montato il caso per lanciare una campagna mediatica. Ilsussidiario.net ha intervistato Paola Bonzi, fondatrice e responsabile del Centro di Aiuto alla Vita della Clinica Mangiagalli.



Che cosa ne pensa della vicenda della madre salvadoregna?

Occorre accompagnare questo bambino alla nascita, facendo arrivare la madre alle 28 settimane di gravidanza in cui il bambino può respirare da solo, e tentare di compiere un parto cesareo.

Attendere due settimane non avrà conseguenze per la salute della madre?



No. Ciò cui bisogna fare particolare attenzione è che un bambino prematuro può andare incontro a complicazioni per quanto riguarda i polmoni. Possono essere messe in atto delle terapie perché il bambino possa nascere prima e possa respirare. La cosa indispensabile è fare in modo che possano sopravvivere sia la mamma sia il bambino. Se la madre abortisce in questo momento, le conseguenze psicologiche saranno molto pesanti e potrebbero peggiorare la malattia. Il lupus è infatti una malattia con complicanze anche di ordine psicologico. E’ importante quindi riuscire a fare un parto cesareo, in modo che il bambino possa nascere, piccolo ma in grado di respirare, e la madre possa essere curata.



Quali sarebbero le complicanze psicologiche in conseguenza di un aborto?

Un aborto potrebbe fare cadere la madre in depressione. La sindrome post-aborto è un fatto provato scientificamente, abbiamo dati e statistiche che dicono quanti disagi si trova ad avere la donna che si sottopone a interruzione di gravidanza. L’aborto va quindi tutto a discapito della madre. La cosa migliore per tutti è quindi che la donna riesca ad accompagnare il suo bambino a un punto tale che poi quest’ultimo sia in grado comunque di sopravvivere, e la donna di essere curata.

Da un punto di vista mediatico, che cosa ne pensa della campagna montata sul caso della donna del Salvador?

Dal punto di vista mediatico ci sono somiglianze con quanto è avvenuto in Italia. La legge 194 è del 22 maggio 1978, e all’epoca fu condotta una campagna quasi terroristica sulle donne che morivano a causa di gravidanze o di malformazioni. Le statistiche fornite allora su questi casi indicavano numeri spropositati, ben lontani dalla realtà. In questo modo si è aperta la strada all’emanazione della legge sull’aborto.

 

Ci fu una vicenda particolare che fu strumentalizzata?

In seguito al caso della diossina di Seveso del 1976, 33 donne gravide si presentarono alla Mangiagalli dicendo che volevano assolutamente abortire perché temevano che i loro feti fossero malformati. Allora l’aborto non era ancora stato legalizzato, ma la Corte costituzionale permise l’interruzione di gravidanza in via eccezionale. Neanche uno di questi 33 feti risultò però malformato. Questo è stato l’avvio per introdurre la legalizzazione dell’aborto.

 

Anche nel caso del Salvador si cerca un caso che faccia scalpore per portare avanti la battaglia sull’aborto, deformando la realtà dei fatti?

Esattamente, o quantomeno ingrandendo la gravità della cosa perché possa poi diventare una legge istituzionale dello Stato.

 

(Pietro Vernizzi)