A 18 anni si ha la testa calda.
Rovente.
E avevo il vizio di cacciarmi nei guai.
Ora ne ho 31.
Gli ultimi 7 li ho passati qui.
Al fresco.
D’inverno tanto freddo, d’estate caldissimo.
La media?
Fresco.
Sono albanese emigrato per cercare fortuna.
Come tanti di noi, partiti su barconi o alla bell’e meglio in cerca di una sperata facile fortuna.
Avevamo la tv.
Tutto ci sembrava a portata di mano.
A 18 anni e con un fisico possente, la vita è facile.
È automatico.
E così sono finito in Germania dove avevo i parenti.
Ho provato a cercare lavoro.
Nulla.
Eppure in giro vedevo belle donne, belle macchine che non potevano essere mie.
Era tutto come in televisione.
Ma era tutto reale.
E non era mio.
E non era facile.
Ed è così che sono finito in Italia a cercare una vita migliore.
Ma io volevo tutto e subito.
Ho iniziato qualche lavoretto ed ero capace.
Son fortunato ad avere grandi doti manuali.
Ma la vita era dura.
Quel poco che portavo a casa mi bastava per sostenere me e qualche parente che avevo qui a Milano.
Tanti albanesi sono emigrati negli ultimi 30 anni e dappertutto si trova un parente.
I miei parenti mi vogliono bene.
Nonostante tutto.
Nonostante il fatto.
Quel dannato fatto.
Io avevo il minimo.
Ma almeno c’era.
Ma io volevo di più.
Volevo le belle macchine, le belle donne, i bei soldi.
Apparentemente facili.
Per uno che ha 23 anni è forte come un leone e domani? Il domani non esiste.
Si è invincibili.
O si crede di esserlo.
Fino a quando una mattina, alle 5 precise, ti bussano alla porta con il mitra spianato.
E un mandato di cattura con allegate le manette.
Ed è in quel momento che ti svegli e scopri che la vita non è essere in tv.
Sei sballottato a destra, sinistra, prima a San Vittore in attesa di giudizio e poi, dopo qualche mese ti ritrovi dove ti han dato la pena definitiva.
A me è toccato Opera e la pena di 15 lunghi anni.
In cella con una brava persona.
La cella è piccola e ci si abitua.
Il corridoio della sezione è lungo 50 metri e lo si fa avanti e indietro per 1000 volte.
Tutti brutti musi.
Che parlano dei propri reati.
Tutto il giorno.
Per me è una malattia: si chiama Carcerite.
Ma anche a quello ci si abitua, o meglio, ci si fa il callo e si cerca di non aver da dire con nessuno e di portare rispetto.
Tenersi lontani dai problemi non è facile ma è essenziale.
È un gioco di equilibri.
100 persone in un corridoio tutto il giorno in celle da 2 delle dimensioni 3 metri per 2 e mezzo.
È durissima ma la pazienza si impara.
Giorno per giorno.
Il giorno, appunto.
Duro ma pur sempre giorno.
Ma alla sera arriva la notte.
Alla notte non ci si abitua.
La notte non finisce mai.
La notte.
Carica di pensieri.
Carica di ossessioni.
Di ricordi.
Di pentimenti.
Allora sei lì nel buio.
Ti viene da piangere.
Vorresti spaccare tutto.
Vorresti spaccarti la testa per fare uscire i mostri.
Quante volte la notte ho preso lo sgabello e la cintura.
Quante volte guardando le sbarre ho voluto farla finita.
Ho desiderato morire più di ogni altra cosa.
Appendermi e lasciarmi cadere giù.
E alla fine ci ho provato con la cintura dell’accappatoio.
L’ho legata stretta stretta alle sbarre più alte della finestra.
Son salito sullo sgabello e mi sono lasciato andare.
Ma il destino è beffardo.
E la cintura ha ceduto.
Pesavo troppo forse.
120 kg.
Una palla.
Beh, il peso mi ha salvato la vita.
O forse non è ancora il tempo per la mia morte.
Lì per lì, dopo la botta mi son messo a ridere.
Era un pianto e un riso isterico.
Ero felice di esserci ancora.
Ed è in quel momento che mi è cambiata, per la prima volta, la vita.
Ho iniziato a guardarmi intorno stranito.
Sì, stranito.
Questo dove sono è il mio mondo.
Lo devo accettare.
Non ci si può rifiutare ad oltranza.
Non è il mondo degli altri.
È il mio mondo.
E se questo è il mio mondo io voglio che sia migliore.
Voglio essere io migliore.
E allora per prima cosa mi son dato delle regole serie e severe per evitare di lasciarmi andare.
Dopo la sveglia si pulisce la cella.
La si pulisce bene.
In ogni angolo.
E la pulizia deve essere minuziosa.
Fase 2 lettura.
Ho iniziato a leggere, in italiano.
Dapprima libri semplici, poi sempre più complessi, così da arricchire il mio bagaglio di vocaboli.
Il tutto deve essere scandito temporalmente da un rigore che io non ho.
Ma deve essere così.
Così come la palestra.
Addominali, fino a 2000 al giorno.
Bilanceri e pesi per le braccia.
Corsa.
Certo, la corsa ha un che di ironico perché correre in cerchio per un’ora nei 10 metri per 10 di cemento assomiglia di più al movimento della trottola.
Ma questa è l’aria.
Per noi è il mondo, il posto dove giocare a palle di neve come la spiaggia dove sdraiarsi a prendere il sole d’estate sulle nostre stuoiette e i nostri auricolari.
C’è chi l’”aria” non la fa da anni.
Ma qui ognuno è una piccola meteora.
Bisogna pensare al proprio bene.
È troppo il male per non lasciarsi tirar dentro.
Ho imparato a tenermi lontano dalle tentazioni.
Pochi e selezionati conoscenti.
Nessun amico.
Conoscenti è il termine giusto.
Quelli con cui ti scambi i favori.
Tu tagli i capelli a me e io ti regalo qualche sigaretta.
Io ti aggiusto gli occhiali e tu mi presti del sugo.
Poche piccole cose.
E un solo desiderio: che il corpo sia in carcere, ma la mente sia fuori.
Perché qui ammalarsi di ossessioni è un virus che va tenuto lontano con tutte le proprie forze.
E allora?
Lavoro!
Bisogna cercare un lavoro all’interno del carcere.
Così la sera si crolla dal sonno e il cervello si spegne.
Clic.
L’interruttore si spegne ed è un giorno in meno di carcere.
Ed è così che ho iniziato a rompere le scatole alle guardie per poter lavorare all’interno del carcere.
Il compenso è di 200 euro al mese ma è un compenso.
E un lavoro è un lavoro.
Si comincia con il fare lo scopino.
Non è il massimo delle mansioni ma pulire scale, salette, corridoi e sezioni ha una sua dignità.
Son passato poi a fare lo spesino.
Tutte le mattine ai piani per portare la spesa ai detenuti perché, come molti non sanno, non esiste la mensa come nei film americani: esiste la spesa fatta settimanalmente con una scheda da compilare con cura.
C’è stato il periodo in cui l’ascensore era rotto.
Un trimestre abbondante.
Beh.
Diciamo che la palestra la facevo da me.
E i giorni passavano.
A volte da fuori non ci si rende conto che il nostro mondo, è come un acquario.
Tutto è sospeso.
I tempi sono eterni e i giorni non passano mai.
Manca la gravità dei cellulari, delle famiglie, delle impellenze, delle mille cose da fare.
Qui è un attimo morire.
E io, dopo la disavventura con l’accappatoio, mi son svegliato.
Ora peso 80 kg e 3 anni fa mi è successo il vero miracolo.
Un’altra caduta.
Che bella caduta!!
Mi è capitato, tra una cosa e l’altra, un foglio con la possibilità o meno di iscrivermi a un corso per diventare maestro costruttore di violini.
Era un corso promosso da una cooperativa scalcagnata ma il corso era vero!
Cinque anni di corso con la realizzazione di violini Veri, per il Conservatorio, quello Vero.
I cinque anni non mi preoccupavano.
Il mio fine pena è molto lontano.
Mi agitavano solo le selezioni.
Che ho superato.
I primi giorni, con i maestri Cremonesi, era più l’agitazione che altro.
Certo, di maestri ne abbiamo cambiati 5.
Perché? Perché loro sono artisti e qui siamo in carcere.
Qui vige il rigore e il rispetto delle regole.
E un artista non si trova benissimo, soprattutto se è un genio svampito.
Il corso non è stato facile.
Mi ha permesso di costruire 10 violini che ho presentato al conservatorio in un concerto benefico.
Vedere i musicisti che suonano i tuoi violini è commovente.
Ora sono diventato un intenditore raffinato e lo dico senza timore di essere smentito.
Sì, perché il volantino è di 3 anni fa.
Ma io ho finito la scuola di 5 anni in 2 anni e mezzo.
Perché qui in carcere mi sono appassionato così tanto che mi sono voluto ammalare di questo virus, di questa ossessione.
E me la sono portata in cella.
Non c’era momento che non pensassi al violino, alle tecniche di scultura di pittura, ai maestri e alle correnti costruttive.
E ora sono un Maestro, il corso è diventato un lavoro sostenuto da una fondazione.
Tutto è così bello che ogni giorno vorrei fosse meglio di quello prima.
Ogni violino vorrei fosse sempre più bello.
E quando parlo con i miei compagni colleghi, ci scambiamo impressioni sul suono, sulla qualità tecnica.
Ognuno si schernisce dicendo all’altro che il suo è un violino come tanti.
Ma nel suo cuore sa che il suo violino è il più bello del mondo.
E il prossimo sarà più bello.
Ovviamente.
La mattina mi sveglio sorrido, mi guardo allo specchio, apprezzo l’aria che respiro e cerco io, in primis, di essere migliore.
Quando uscirò con i miei violini, i miei rudimenti di musica che sto studiando e le poesie che ho iniziato a scrivere la gente mi guarderà come un ex detenuto.
Questo lo so.
Ma sarò un uomo migliore.
E anche questo lo so.
Ora.
(Carlomichele Izzo)