“Il nostro compito è accompagnare il dolore di una famiglia che dall’oggi al domani si trova in una situazione del tutto nuova dove improvvisamente le crolla il mondo addosso. Curare il malato tutto sommato è la cosa più semplice, il nostro compito è piuttosto fare un pezzo di strada insieme a queste persone”. Roberto Mauri racconta a ilsussidiario.net la storia di un’avventura cominciata quasi per caso in un oratorio di Monza a metà degli anni 70, facendo volontariato con alcuni anziani, e approdata nel corso degli anni alla Meridiana, la struttura italiana e forse anche europea che accoglie il più alto numero di malati in stato vegetativo. Nel corso degli anni, ci ha detto Mauri, di qui ne sono passati più di duecento, oggi ce ne sono 55 e anche sei malati di Sla. “Abbiamo cominciato perché volevamo bene a quelle persone, gli anziani, e con i nostri tanti difetti oggi ci viene riconosciuto un merito. Chiunque abbia un malato di questo tipo a Monza e dintorni oggi viene da noi. Anche chi ha perso il familiare malato, continua a venire e a fare volontariato: questa è la cosa più bella”.
Come nasce la Meridiana, come siete arrivati a questo traguardo importante?
Nasce tutto da un gruppetto di persone che facevano volontariato con degli anziani. Un gruppetto di adolescenti dell’oratorio che io seguivo sentì l’esigenza di concretizzare i tanti discorsi che facevamo cercando di rispondere alle esigenze degli anziani. Nei primi anni 80 chiedemmo al comune di Monza una villa abbandonata che ristrutturammo a nostre spese per farne un centro accoglienza diurno per anziani e che col tempo è diventato un centro diurno integrato. Abbiamo proposto alla Regione questo tipo di assistenza perché questo modello fosse replicato, e oggi in Lombardia ce ne sono duecento di questa tipologia.
Come è nata invece l’assistenza a malati in stato vegetativo e terminale?
E’ successo per caso, per dare risposta a malati neurologici gravi che una decina di anni fa non trovavano accoglienza nel territorio. Un giorno vennero da noi due genitori disperati con un figlio giovane in stato vegetativo che alla fine del percorso ospedaliero veniva dimesso. Non avendo la possibilità di assisterlo a domicilio, ci chiesero di accoglierlo qui. Non ci siamo sentiti di chiudere la porta. Oggi siamo la struttura con il maggior numero di persone in stato vegetativo.
Oggi si dibatte molto sulle persone in stato vegetativo, che respirano autonomamente, e sui malati terminali, e si parla di “staccare la spina” senza sapere di cosa si sta parlando. Si chiedono leggi apposite. Cosa significa per voi avere a che fare con questo tipo di malati?
La nostra esperienza ci porta a dire che sono molto poche le situazioni nella quale la famiglia chiede di sospendere le cure minimali. Sono persone che vivono in modo autonomo, hanno il ritmo del sonno e della veglia, sono solo alimentate e idratate per il resto hanno una vita autonoma. Molto più spesso le famiglie ci chiedono di più l’accanimento terapeutico che la sospensione delle cure minimali.
Cioè?
Le famiglie giustamente vogliono stare in attesa del miracolo, soprattutto nel caso di persone più giovani. Il miracolo può avvenire, ma il nostro compito è anche quello di non esagerare rispetto all’accanimento terapeutico. Il nostro compito è accompagnare il dolore di una famiglia che dall’oggi al domani si trova in una situazione del tutto nuova e improvvisamente le crolla il mondo addosso senza aver chiare le prospettive future. Quando un genitore che portava a casa lo stipendio cade in questo stato, il nostro compito è fare un pezzo di strada insieme a lui, senza pretendere di ergersi a giudici. Io non credo oggi sia corretto pensare a una legge che vada bene per tutti. Ogni realtà ha una storia a sé e le famiglie vanno aiutate, magari in punta di piedi, ma sostenute, trovando i supporti che da un punto di vista istituzionale ci sono.
Nelle grandi discussioni mediatiche sui malati in stato vegetativo, sembra che tutti vogliano sospendere le cure minimali.
La richiesta di dire basta avviene solo in uno stato di disperazione, quando ci si sente abbandonati.
C’è un episodio, un momento che lei ricorda in particolare in questa storia?
Sono tantissimi. Penso ad esempio alle famiglie che la malattia ha riunito. Potrei raccontare la storia di Fabio, che ha qui la moglie ricoverata, una storia dove l’amore coniugale non è rimasto intaccato dalla malattia ed è una cosa che tocca tutti. La cosa bella che io dico sempre è che qua dentro, alla fine, siamo riusciti a creare una famiglia dove i parenti si aiutano l’un l’altro.
Ad esempio?
Ad esempio quando d’estate tutti i parenti portano fuori i loro malati in carrozzina e si fermano a parlare tra di loro, o quando finalmente una famiglia riesce ad andare in vacanza gli altri parenti si prendono cura del loro malato. C’è un aiuto reciproco che dà un significato, ci sono molti che dopo che il loro malato è deceduto continuano a venire qui facendo volontariato, perché qui hanno trovato una famiglia e un’accoglienza.
(Paolo Vites)