Guerriglia ubana e case popolari, sgombero di centri sociali ed emergenza abitativa: a Milano ieri si è registrato un altro giorno di tensione e violenza. Ma conviene fare un passo indietro se vogliamo capire, se non vogliamo ridurre tutto ad un problema di ordine pubblico. L’Aler di Milano – l’ente al centro delle polemiche sulla gestione delle case popolari – aveva dovuto liberarsi, anni fa, degli alloggi troppo malandati e troppo piccoli per rientrare nei canoni dell’edilizia pubblica. Li aveva dati in affitto a cooperative sociali (che li gestiscono tuttora) impegnandole a ristrutturarli a proprie spese e utilizzarli per emergenze abitative. Un affare per l’Aler e un’opportunità per tanti bisognosi di un tetto a canone irrisorio e di un po’ d’assistenza: bisognosi di asilo, nel senso pieno del termine.



Generalmente, chi entra nel mini-alloggio trova una residenza definitiva nell’arco di uno o due anni, con l’aiuto della Cooperativa, e lascia il posto ad altri. A volte, con la crisi, chi viene accolto non riesce neppure a pagare le spese; a volte qualche farabutto si spaccia per bisognoso e passa da ospite a occupante abusivo. Chi ci rimette è la cooperativa, che paga comunque l’affitto all’Aler e tutte le spese, incluse quelle dello sfratto. L’appartamento liberato viene subito occupato dal primo di una lunga lista d’attesa. Gli abitanti del caseggiato sanno che la cooperativa segue quegli inquilini particolari e a volte danno una mano ai nuovi venuti. Nessuna lotta fra poveri. “Ma allora – pensa il tipo della cooperativa andando in zona Corvetto sotto la pioggia – perché non si moltiplicano queste esperienze? Perché le istituzioni non le sostengono? I politici sanno che “sussidiarietà” significa appoggiare chi si impegna per il bene comune? E giornali e televisioni, perché parlano solo di ingiustizia e violenza?”



Intanto, il tipo della cooperativa è arrivato in Viale Molise, in fondo, dove si susseguono molti isolati di case popolari. Trova il numero civico e sale al primo piano. All’appuntamento, con lui, ci sono tutti: l’ufficiale giudiziario, il fabbro, due della polizia. L’inquilino sfrattato è un nigeriano. A suo tempo aveva fatto pena a tutti ma ben presto si era rivelato un mascalzone. Si bussa più volte. Non c’è nessuno. Da un paio di giorni, dice un vicino che mette a disposizione del fabbro la corrente elettrica di casa sua. Viene accesa la fresa che aggredisce la serratura fra scintille e rumore a tratti assordante. Dopo poco si entra. Il monolocale è in uno stato pietoso: tutto è lurido e irrecuperabile. Resta, per terra, qualche cencio abbandonato. È chiaro che il nigeriano se n’è andato fiutando l’arrivo dei poliziotti, che danno a intendere di avere informazioni sul soggetto. La moglie se ne era andata da un pezzo, stanca di essere pestata: così dice il vicino, staccando la prolunga dalla presa di corrente.



Finalmente l’alloggio è libero. Il tipo della cooperativa ha già in mente chi imbiancherà, chi sistemerà gli impianti, chi recupererà altri mobili quasi nuovi. Le disponibilità economiche sono scarse. Bisogna comunque sbrigarsi. La moglie di un detenuto di Opera, con due bambini e un lavoro da 800 euro mensili, ha bisogno di entrare. Il marito uscirà presto e vuole cambiare vita, come confermano le relazioni dell’assistente sociale. È una scommessa. Come la vita di una cooperativa sociale.