Sgomberiamo subito il campo da equivoci e fraintendimenti: non è in questione il diritto ad avere un luogo di culto o una rappresentanza fisica dove riunirsi e pregare. La realizzazione di una moschea in una città importante come Milano, snodo commerciale ed economico per il Paese, mette in campo valutazioni che esulano dal mero riconoscimento di un diritto sì tutelato dalla Costituzione ma ai cui contorni spesso occorre dare le giuste proporzioni.
Una moschea o un qualsiasi altro edificio di culto non è solo un agglomerato di mattoni e intonaco, bensì qualcosa di molto più significativo dal punto di vista emotivo e umano, oltre che sociale. Gli interrogativi sulla possibilità di realizzare la struttura sono parecchi e non di poco conto; quando era ancora attiva la Consulta per l’Islam Italiano, ahimé falciata dalla scure del governo tecnico e sostituita da una bizzarra quanto inoperosa (per fortuna) consulta interreligiosa, molto si dibatté in questo senso su quali e quanti elementi dovessero concorrere affinché si potesse procedere all’edificazione di una moschea. Qual è l’imam prescelto, qual è il suo orientamento, quale indirizzo intende dare alla comunità dei fedeli, chi la finanzia e chi si occupa della sua gestione.
Interrogativi che in molti casi avevano concorso alla richiesta di regole certe affinché, non sussistendo un vertice unico dell’islam italiano con cui confrontarsi come per i cattolici, ogni moschea non si trovasse ad avere un orientamento del tutto indipendente e sostanzialmente slegato dal rispetto delle norme basilari di convivenza e integrazione e con essa, a cascata, la comunità dei fedeli. E di cui la richiesta di corsi di formazione per gli imam e di accertamenti specifici su provenienza geografica e insegnamento, al fine di sperimentarne concretamente la distanza da atteggiamenti o intenti di carattere estremistico. Non solo per tutelare la cittadinanza tutta ma in primis i fedeli e loro figli, che con grande facilità diventano obiettivo di propaganda pericolosa.
Al di là dell’aspetto architettonico, su cui in Europa ora molto si discute dopo decenni di colpevole lassez faire e odierno pentimento per le concessioni fatte, occorre interrogarsi su dove finisce l’esigenza del luogo di culto e dove invece inizia l’operazione “territoriale”. Di un’avanzata dai contorni ben chiari e che risponde ad un progetto storicamente definito. Se vale a qualcosa riportare che la Casa della Cultura Islamica di Milano, storica sostenitrice del dialogo con le istituzioni e delle scelte di integrazione, non ha preso parte all’iniziativa del Caim e ne prende nettamente le distanze sui media, appare del tutto evidente che la comunità islamica milanese, non interamente rappresentata da questa iniziativa, è divisa e necessita un ascolto organico prima di prendere una decisione in merito.
A poco vale sostenere che in previsione di Expo 2015 sia necessario un edificio che rappresenti, agli occhi degli invitati di fede musulmana, un tangibile segno della loro presenza in Italia; c’è già la grande Moschea di Roma, a guida saudita, che rappresenta da sempre tutti i musulmani in Italia e non necessita certo di un’altra struttura, dal costo di milioni di euro e dalle dimensioni di 4mila metri quadri, che rappresenti un’indicazione di cambio di rotta della comunità in Italia. Nonostante la stessa Moschea di Roma sia frequentata da poche unità ogni venerdì perché le svariate moschee “di corrente” o “geografiche” sorte nel frattempo hanno frammentato l’unità preesistente in maniera già molto profonda e senza controllo.
La domanda è: chi vuole conquistare cosa? Cosa si vuole tenere nascosto? E poi perché, in tutte le richieste di rappresentazione di diritti che emergono dalla volontà di costruire questa moschea, non si riesce a capire quale islam vi verrà professato? Assieme alla provenienza dei fondi, quello è il cardine che deve sempre e comunque sottintendere ad ogni decisione. Certo, non nascondo che in un periodo di crisi come questo mi sarebbe piaciuto leggere di progetti per la realizzazione di incubatori di impresa per i giovani, di scuole professionali e di istituti di formazione e alfabetizzazione/integrazione, invece della trita e ritrita querelle sul costruire o meno una moschea a ridosso di un Expo commerciale, peraltro senza nemmeno consultare la grossa parte di coloro che dovrebbero un giorno frequentarla. E mentre le grandi potenze di Qatar e Arabia Saudita sono agli antipodi e in contrapposizione feroce.
Winston Churchill, che viveva in tempi ben più duri del nostro, diceva che “la democrazia è due lupi e un agnello che votano su cosa mangiare a pranzo. La libertà è un agnello bene armato che contesta il voto”. O magari, aggiungo io, tante teste che non smettono di pensare.