Il tema delle riforme istituzionali è certamente di grande attualità nel dibattito politico e rappresenterà una delle priorità del nuovo governo nazionale. Anche in Consiglio Regionale è stato oggetto di discussione: l’Aula del Pirellone vi ha dedicato ben due sedute tematiche nel corso del mese di febbraio.



La questione è complessa e per molti aspetti richiede sofisticate competenze costituzionali. Ma in fondo è riconducibile a domande molto semplici e, allo stesso tempo, determinanti per il destino dei livelli intermedi di governo. Qualunque ipotesi di riforma istituzionale infatti presuppone una scelta: l’articolazione della Repubblica Italiana in diversi livelli di governo territoriale e il valore costitutivo delle autonomie sociali e locali (previsto esplicitamente negli art. 2 e 5 della Costituzione) deve continuare ad essere riconosciuto oppure no? Avrà ancora senso parlare delle Regioni, delle Province, dei Comuni, così come le abbiamo conosciute o verranno progressivamente svuotate di funzioni e contenuti reali? Le autonomie continueranno ad esistere o saranno travolte dal clima del momento?



È sotto gli occhi di tutti il formidabile attacco che in questi mesi si sta attuando nei confronti delle autonomie locali: dal patto di stabilità che ha amputato la capacità di azione concreta dei comuni, alla prospettata cancellazione delle province, trasformata poi nella mera eliminazione dei livelli elettivi; fino alle Regioni, additate da più parti come il ricettacolo di ogni male, ritenuti dai più inutili sprechi se non addirittura preclari esempi di malgoverno, da eliminare in fretta.

Contrastare la deriva in atto è necessario innanzitutto per una ragione ideale: senza più alcun livello istituzionale tra il cittadino singolo e lo Stato, senza corpi intermedi, società di mezzo, autonomie locali ci sarà solo meno libertà sociale e politica e meno benessere per tutti. Non è certo un nuovo centralismo che potrà risolvere i problemi del Paese. Ma è ancor più grave la constatazione che sfugge ai più nel dibattito attuale – tutto centrato sul tema dei costi della politica, delle indennità, degli sprechi (che certo, sia ben chiaro, vanno contrastati) – la consapevolezza che le autonomie rappresentano un baluardo reale per la libertà di tutti. Una società senza corpi intermedi è una società più debole e più esposta a tentazioni autoritarie. 



La Lombardia, forte di una tradizione civica millenaria costruita sulle autonomie, ha il dovere di svegliarsi dall’intorpidimento cui ci costringe il clima attuale, bloccato dagli scandali dei rimborsi e dalla questione delle indennità, e portare a livello nazionale una proposta articolata di riforma che parta dal riconoscimento esplicito di questo valore. Siamo chiamati a difendere le Regioni e le autonomie locali e sociali, non per tutelare posti o istituzioni vuote, ma perché sono un baluardo per la libertà e il benessere di tutti.

Questa sottolineatura culturale e ideale si accompagna poi a considerazioni di natura più pratica. Qualcuno pensa veramente, ad esempio, che la sanità in Lombardia sarebbe migliore se gestita da Roma, anziché dalla Regione? O che un ulteriore accentramento delle entrate fiscali e delle spese vada nella direzione giusta e contrasti realmente sprechi e spesa pubblica improduttiva? O ancora che ridurre qualche posto nei consigli comunali, provinciali e regionali possa compensare Il costo delle burocrazie centrali? Il rischio che stiamo correndo è altissimo: sacrificare le autonomie locali, buttandole via senza renderci conto del danno che facciamo alla vita concreta di tutti.

Alla luce di queste considerazioni ho presentato a tutti i capigruppo del Consiglio Regionale, ad un gruppo di docenti universitari tra cui alcuni insigni costituzionalisti, alla Commissione Affari Istituzionali del Consiglio regionale e alla Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali italiani, una proposta di riforma istituzionale articolata, che mi auguro possa rappresentare un contributo allo sviluppo di un dibattito serio in Consiglio regionale e in Parlamento. La proposta sviluppa i tre temi che, a mio parere e in questo ordine logico, devono essere al centro di qualunque seria proposta di riforma: il Senato della Regioni, la riforma del Titolo V e la revisione degli assetti dei livelli intermedi di governo

Una proposta per un vero ed efficace Senato delle Regioni e delle Autonomie

Il consenso sul fatto che sia necessario superare il bicameralismo perfetto del nostro attuale sistema costituzionale è ampio e diffuso fra gli studiosi come in politica e nell’opinione pubblica. Meno chiaro è come debba avvenire questa trasformazione.

Circolano ipotesi, come la Camera delle Autonomie proposta da Matteo Renzi, composta da 150 membri ovvero i 21 governatori, 108 sindaci e 21 esperi nominati dal Presidente della Repubblica, delle quali si capisce poco, eccetto che sembra prevalere la preoccupazione per la riduzione delle indennità su quella delle effettive competenze e della reale funzionalità. Che senso ha una camera con una sola competenza reale: quella di partecipare alla elezione del Presidente della Repubblica una volta ogni sette anni? Non è allora meglio eliminarla del tutto?

Credo che le condizioni affinché il nuovo Senato delle Regioni svolga un ruolo reale riguardino il numero dei componenti, le modalità di individuazione degli stessi e soprattutto le funzioni, le materie e le competenze effettivamente attribuite. Solo dopo aver chiarito bene questi aspetti la nuova Camera potrà essere nelle condizioni di svolgere adeguatamente il ruolo di espressione della volontà delle autonomie territoriali e di raccordo tra centro e autonomie.

Nella mia proposta il numero complessivo di Senatori deve essere prossimo ai 200, la metà designata in forza degli incarichi ricoperti e 100 eletti direttamente dal popolo. Devono prevalere nella parte designata i soggetti espressione delle regioni, in quanto dotate di poteri legislativi. Una ipotesi può essere: i 21 Presidenti delle Regioni e delle province autonome; i 21 capi delle opposizioni (il candidato presidente sconfitto con il risultato migliore), i 20 Presidenti dei Consigli regionali. Questa ipotesi consente di avere una rappresentanza autorevole, equilibrata politicamente (per ogni regione due esponenti di maggioranza, di solito di partiti diversi, e uno di minoranza). Le regioni esprimerebbero dunque 62 membri. Ad essi si possono aggiungere 31 rappresentanti dei Comuni (esattamente la metà dei membri regionali), così composti: il Presidente dell’ANCI più 30 sindaci, 10 per ciascuna dimensione territoriale: aree metropolitane e grandi comuni, medi comuni, piccoli comuni. I membri designati rappresenterebbero così i territori in modo tendenzialmente omogeneo, a prescindere dalla popolazione, secondo la regola del “senato dei territori” come nel caso degli Stati Uniti. I membri designati possono essere completati da un numero molto limitato di esponenti delle autonomie funzionali o esperti.

Contestualmente alla elezione dei Consigli regionali o della Camera politica, si dovrà procedere alla elezione degli altri 100 membri, preferibilmente tra coloro che hanno già avuto significative esperienze di amministrazione locale. I seggi elettivi saranno proporzionali agli abitanti, così da riequilibrare la rappresentanza dei territori più popolosi.

La composizione mista mira a garantire sia la legittimazione popolare sia uno stretto collegamento con le istituzioni territoriali. Nell’ottica del contenimento dei costi della politica, i membri che fanno già parte di Consigli regionali non percepiscono alcuna indennità aggiuntiva (rimborso delle spese vive documentate); i membri di diritto espressione dei comuni percepiscono una indennità a carico delle Regioni di provenienza e i membri elettivi una indennità a carico del Senato equiparata a quella dei consiglieri regionali, già significativamente ridotta nel 2013. La questione centrale resta però quella delle competenze.

Il Senato delle Regioni e delle Autonomie deve restare parificato alla Camera relativamente all’approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, alle leggi che prevedono le norme fondamentali per l’ordinamento degli enti locali e ai provvedimenti finanziari. Sulle altre leggi, il Senato avrà potere di iniziativa legislativa e il potere di richiamo, con tempi da definire, delle leggi approvate in prima battuta dalla Camera, la quale manterrà comunque il potere di decidere definitivamente, con maggioranze qualificate. Il Senato avrà potere di valutazione sull’attuazione delle leggi, poteri ispettivi e il potere di nomina di tre giudici costituzionali oltre alla partecipazione all’elezione del Presidente della Repubblica.

La differenziazione del procedimento legislativo si deve esplicitare soprattutto sulle materie che sono di stretta competenza regionale e delle autonomie locali. Su queste il Senato deve avere l’onere della validazione del provvedimento legislativo e non deve valere la prevalenza della decisione definitiva della Camera dei Deputati.