Si fa presto a dire Klimt. Perché non c’è solo Gustav Klimt: c’è anche Ernst Klimt, il fratello scomparso precocemente, e c’è pure Georg Klimt, specializzato in rame a sbalzo e cornici. E poi ci sono gli amici e colleghi della Ku¨nstler-Compagnie (Compagnia degli Artisti) Franz Matsch, Ferdinand Laufberger , Eduard Veith, Koloman Moser, i riferimenti artistici di Hans Makart, Anton Josef Ritter von Kenner, Eduard Veith, Wilhelm List, per non parlare dei paesaggi di Emil Orlik, Tina Blau-Lang, Carl Moll e Rudolf Junk o dei ritratti di Maximilian Kurzweil. Ci sono i ritratti e i paesaggi, gli studi e le decorazioni, il molto prima, il prima e qualcosina, non molto per la verità, del durante, cioè di quello che si ama in Klimt, che poi sarebbe ciò che Klimt incarna, ovvero lo spirito della Secessione viennese, la versione austriaca dell’Art Nouveau francese e del nostrano Floreale all’esposizione “Klimt. Alle origini di un mito”, promossa dal Comune di Milano-Cultura, organizzata e prodotta da Palazzo Reale, 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE e Arthemisia Group, fino al 13 luglio al Palazzo Reale di Milano.
In questo stanno “le origini”: nel raccontare non tanto l’artista in sé, né le sue opere, quanto il clima culturale, convenzionale e classicista, nel quale Klimt è cresciuto per poi elaborare, sulla spinta modernista che permeava l’Europa di fine Ottocento, la sua personalissima versione a tratti scabrosa e scollacciata del Liberty, fino alla rottura con le istituzioni sue committenti. Così chi si recherà a Palazzo Reale alla ricerca di un contatto ravvicinato con l’icona del Liberty austriaco potrà provare un po’ di delusione: delle tele esposte, solo una minoranza, venti per la precisione, portano la firma di Gustav Klimt. Non solo: le opere che rappresentano il Klimt della Ver Sacrum (primavera sacra) e della Secessione viennese, si contano sulle dita di una mano. C’è una riproduzione del Fregio di Beethoven esposto nel 1902 al Palazzo della Secessione di Vienna, c’è la celebra Salomè, c’è l’incompiuto Adamo ed Eva. Manca tutto il resto. Manca anche, se volessimo fare un appunto agli organizzatori, il ritratto fattogli sul letto di morte dall’allievo ed amico Egon Schiele, colui che di Klimt ha raccolto l’eredità artistica. Avrebbe chiuso degnamente il percorso espositivo. E sarebbe bastata una riproduzione. Così, per tamponare un po’ la delusione, a fine mostra il pubblico si rifà acquistando magari non il catalogo, ricco e ben fatto, ma troppo oneroso in tempi di austerity, quando l’immancabile segnalibro, o penna, o calamita che sia.
D’altra parte, così come è stato per tanti altri grandi dell’arte, da Cèzanne a Picasso, quella di Palazzo Reale è solo la tappa di una lunga tournée. E, si sa, i grandi musei, quando c’è da prestare, magari non proprio a titolo gratuito, le proprie opere, non è detto che siano disposti a mandare in giro i gioielli da famiglia. Che rimangono ben custoditi nelle proprie sale, a disposizione del pubblico internazionale. Di contro l’ingresso, proposto a un prezzo accessibile ma non troppo (11 euro il biglietto intero e ben 9,50 il ridotto, quasi una presa in giro) che comunque non fa rimpiangere un volo low-cost direttamente a Vienna per vedere i veri capolavori di Klimt dal vivo, include un’audioguida ben strutturata, diremmo indispensabile per la fruizione della mostra, grazie ai commenti della studiosa klimtiana Eva Di Stefano.