Alla metà circa di una stagione (2013-2014), ultima della gestione Lissner, in cui il pubblico, particolarmente quello del loggione, si è mostrato insofferente a regie innovative, alcune riprese di spettacoli degli anni scorsi hanno poco entusiasmato i critici e si respira aria di attesa nei confronti dell’arrivo di un nuovo Sovrintendente, Les Troyens di Hector Berlioz sono sbarcati alla Scala l’8 aprile (e vi resteranno sino al 30) ed hanno messo tutti d’accordo: dopo circa sei ore in teatro, platea, palchi, galleria e loggione hanno salutato lo spettacolo (che era iniziato alle 17,30 ed è terminato quasi alle 23,30) con quindici minuti di ovazioni dopo averlo interrotto più volte con calorosi applausi ai cantanti ed all’orchestra.



Quale la ricetta del miracolo? In primo luogo, due parole su Les Troyens. Berlioz (Prix de Rome e pensionnaire di Villa Medici, appassionato dell’Italia e lettore avido di Virgilio) la aveva concepita negli anni del secondo Impero, come una tragédie lyrique da contrapporre al melodramma verdiano, al grand opéra (che allora assumeva sempre più le caratteristiche di spettacolo nazional-popolare) e soprattutto al musikdrama wagneriano che allora acquistava sempre maggiori fedeli in Francia. Scrisse il libretto, e compose la musica, di un lavoro smisurato: un organico orchestrale maggiore di quelli richiesti dalle maggiori opere di Wagner, ben 22 solisti , balletti, cinque atti  di una durata complessiva (se eseguiti senza alcuna interruzione) analoga a quella de I Maestri Cantori di Norimberga wagneriani ma che richiedeva intervalli se non altri per il complesso apparato scenico (l’ingresso del Cavallo nelle Mura di Troia, l’incendio della città, l’approdo delle navi troiane  a Cartagine, una ‘caccia reale’, una tempesta, partenza della flotta troiana verso l’Italia, olocausto di Didone con tanto di pira). Vennero messi in scena, lui vivente, solo i tre ultimi  primi atti in un’opera chiamata  Les Troyens à Carthage . I due primi atti vennero pubblicati separatamente con il titolo La Prise de Troye. Per circa un secolo, le due opere vennero rappresentate separatamente. Vennero fuse in un unico lavoro, soprattutto in Germania (ed in traduzione tedesca) operando numerosi tagli ed interpolazioni . In effetti, solamente nel 1957 è stata messa a punto un’edizione critica del lavoro.



Da allora, si pone il problema della rappresentazione scenica per l’enorme costo che essa comporta. Al Teatro alla Scala questa è solo la quarta volta in cui Les Troyens va in scena. La prima volta su nel lontano 1960, ma in versione ritmica in italiano. Versioni integrali venne presentate (per poche repliche) nel 1982 e nel1996 con regia di Ronconi e con , sul Podio, Prêtre nel 1982 e Davis nel 1996. Ho contezza di un solo altro teatro italiano che abbia avuto il coraggio di mettere l’opera in scena nell’edizione critica: il Maggio Musicale Fiorentino nel 2002, con Metha sul podio la regia di Vick; coprodotto con l’opera di Amsterdam, ricordo un’ottima esecuzione musicale (Mehta aveva la bacchetta) ma una discutibile lettura ‘politica’ con forti accenti antimilitaristi ed un’ambientazione atemporale astretta (la seconda parte in un contesto tropicale).



L’edizione ora alla Scala è anch’essa il frutto della collaborazione di vari teatri: ha debuttato al Covent Garden a Londra, e dopo Milano andrà a Vienna e a San Francisco. E’ , inoltre , il frutto di accordi con case televisive e probabilmente di vedrà in varie sale cinematografiche in tutto il mondo.

Il pubblico del Metropolitan e di San Francisco (nonché della stessa Scala) non apprezza regie troppo innovative. L’allestimento di David McVicar (scene di Es Devlin, costumi di Moritz Junge, luci di Wolfgang Goebble, coreografia di Lynne Page) non cade, però, come avvenne a Ronconi (1982, 1996) nel ‘colossal hollywoodiano) alla Quo Vadis : l’azione è spostata all’epoca di Berlioz, con i primi due atti in un contesto che potrebbe essere la guerra franco-prussiana, e gli ultimi tre in una Nord-Africa che ricorda quella dei primi imperi coloniali che si formavano alla fine dell’Ottocento. Lo spettacolo utilizza tutte le tecnologie scenica disponibili: è rispettoso del testo e della musica (una tragédie liryque imperniati sui drammi umani ma senza un ‘messaggio politico’ predeterminato).

La drammaturgia è in piena sintonia con la bacchetta di Antonio Pappano, fedelissimo ad una partitura basata sulle grandi opere imperiali di Gluck e soprattutto Spontini ma che ha metabolizzato l’evoluzione musicale dei primi sei decenni del diciannovesimo secolo (soprattutto quel Wagner a cui Berlioz voleva contrapporsi). Pannano e McVicar hanno a disposizione ha grande schiera di cantanti attori. Primeggiano Gregory Kunde, un Enea eroico, innamorato ma consapevole del suo ‘dovere sociale’; Kunde ha ruolo difficile in cui giunge al ‘si  naturale’ e regala, oltre a splendidi acuti, magnifici legati. Anna Caterina Antonacci (vorremo vederla più spesso in Italia) è una Cassandra da manuale per i registri gravi a cui discende e la stupenda recitazione. Impervia la parte di Daniela Barcellona (Didone) quasi sempre in scena nei tre atti a Cartagine; la affronta con sicurezza entusiasmando il pubblico sia nel grande duetto del quarto atto sia nei drammaticissimi secondo e terzo quadro del quinto atto.

Tra gli altri , numerossimi, non si possono non citare Fabio Capitanucci, Giacomo Prestia, Paolo Fanale, Maria Radner ed Elina Zilio – tutti solisti di norma in ruoli da protagonisti e che in questo enorme lavoro hanno accettato parti solo apparentemente secondario. 

Con questi Les Troyens la Scala dimostra di sapere essere all’apice dei grandi teatri internazionali di teatro in musica.