L’Expo è l’argomento di tendenza. Specialmente ora che si avvia alla conclusione. Lo si spende tra amici, conoscenti, al bar, indugiando sulla piazza. Non può che essere presente nella nostra quotidianità: chiunque ha ricevuto i feedback delle persone che ci sono state e ci hanno riferito le impressioni, quel misto di entusiasmo e frustrazione per il bilancio della propria visita al sito espositivo. 



E in effetti il successo della manifestazione è da attribuirsi al facile tam tam che consegue al sempiterno costume umano di condividere – verbo oggi uscito dalle accezioni tradizionali del Devoto-Oli per assumere un significato tutto suo nella logica dei social network. Ma la radice è sempre la stessa: raccontare e rendere partecipi. 



Il mio vicino di casa e l’amico di Facebook mostrano i selfie tra il Cardo e il Decumano: essi hanno affrontato indicibili e pesantissime colonne di altri bipedi prima di accedere agli ambiti padiglioni, scatenano una curiosità senza fine, spingono l’uditore ad aderire alla festa collettiva. Festa che poteva non essere tale, se quel muro dei 20 milioni di biglietti venduti sfondato a metà ottobre fosse rimasto inviolato. Ma gli sguardi tesi di Sala&Co. si sono stemperati in un sorriso di pericolo scampato, grazie alla “gente”, quella massa semplice che ogni giorno scrive la propria epopea. 



L’Esposizione Universale è un fenomeno raro, non si insedia (parlo per gli italiani) a poche decine di chilometri da casa ogni anno. Dunque accorriamo per godere delle meraviglie dei popoli del mondo. Expo prima avversata da molti, da molti tiepidamente accolta, poi accettata, e ancora desiderata febbrilmente, infine osannata appassionatamente (non da tutti, poi vedremo perché), con la richiesta di prorogarne la chiusura. Insomma è diventata una formula pop, anche grazie a fortunate intuizioni al confine tra spettacolo e svago serale. Ci viene la famiglia al completo, la carovana di pensionati (sconfitti dalle code), le coppiette, i gruppi di amici. 

Si diceva, non tutti si dichiarano entusiasti: al netto dei bastian contrari che per partito preso o per buonsenso o cristiana rassegnazione vi rinunciano in partenza e si astengono dal pellegrinaggio laico, si registra la protesta montante di coloro che schiumano di rabbia per aver dovuto affrontare peripezie ingloriose (in breve, code lunghe ere geologiche) o rinunciato a soddisfare le proprie aspettative (in breve, restare a bocca asciutta). Qualcuno si è perfino rivolto alla magistratura (“c’è un giudice a Rho?”). 

Ma l’Expo è l’Expo, e stringendo i denti (e la giacca, in queste ultime settimane) a passi di tartaruga si giunge alle mete più appetitose. I soliti stand: Giappone, con le code-monstre di otto ore, Palazzo Italia, Kazakistan, Emirati Arabi Uniti. Tutto non si può fare, sa in partenza il visitatore avveduto: o si punta sui “big”, oppure ci si dedica agli altri, a quelli meno sfarzosi, diciamo di seconda fascia, e ai piccoli che si sono accasati nei “cluster”, capannoni tematici che radunano più Paesi ospiti. Per avere la gallina oggi e l’uovo domani, opinione condivisa, bisogna concedersi una due giorni milanese: solo così si può fare il giro del mondo lungo il chilometro e mezzo di Decumano. 

È questo il grande asse su cui si affacciano tutti i popoli che propongono le loro visioni per dare cibo al pianeta: un viale coperto che risulta intasato nelle ore calde. Preso d’assalto da una folla disordinata ed eterogenea che schizza in tutte le direzioni: è il formicaio di Expo dove non ci si muove solo sulle gambe (sarebbe perfetto) ma anche sulle quattro ruote. Dei passeggini. 

Durante il weekend si celebra infatti il raduno internazionale delle carrozzelle, con piccole creature già coscienti dei loro arti inferiori che misteriosamente necessitano per un giorno del supporto rotabile. Se si dà credito alle italiche mamme che imbragano gli infanti nei passeggini, bisogna orribilmente pensare che l’età in cui si deambula scioltamente si è pericolosamente elevata. 

Quindi ministro Lorenzin, facciamo qualcosa. Il sospetto è ovviamente quello di approfittare delle disponibili mani dell’Expo, che accorda ai figli piccoli il privilegio di passare avanti agli altri. Gli altri che, è vero, nella maggior parte dei casi sono mansueti e dialoganti, lievemente polemici, inclini al consueto florilegio di luoghi comuni quali “ma doveva essere organizzato meglio” (l’Expo), ma quando il tempo passa – e se qualcuno “fa il furbo” – tirano fuori tutte le proprie doti belluine. 

Insomma, Expo è anche un inno alla tolleranza ma soprattutto un esercizio di pazienza. 

E se fosse questo il vero obiettivo del comitato scientifico della manifestazione, cioè predicare la convivenza e la sopportazione? Sarebbe un classico caso di eterogenesi dei fini. Perché il tema di quest’anno è la nutrizione: ma ha davvero fatto breccia nell’anima delle persone? Ha stimolato riflessioni, innescato moti di volontà, smosso coscienze, instillato dubbi sul nostro paradigma tradizionale? La cartina di tornasole pare essere questa “Carta di Milano” (bella senz’anima, secondo l’Avvenire) firmata da un milioncino di mani tra cui potenti del mondo ma soprattutto tanta gente comune. 

Però: visto che l’Expo fonda le sue fortune sulla massa che l’ha reso vivo, bisogna chiedere a loro, agli italiani di ritorno da Rho. E in tanti hanno qualche incertezza. Non vogliamo essere disfattisti, ma “nutrire il pianeta” era sì ben evidenziato, ma dai chicchi di grano e dai semi sconosciuti di certe lontane nazioni più che dai contenuti trasmessi. Sì, i Paesi hanno raccontato le loro strategie, ma è parso più che altro una corsa a “gonfiare il petto” di fronte agli incantati spettatori. Del resto si va lì per sedurre, impressionare, persuadere. 

La lezione dell’Expo 2015 si svelerà oltre le parole, oltre l’effimero dei padiglioni: si spera che se dal Papa ai governi del mondo, passando per numerosissime altre grandi e minime realtà, proviene l’univoco messaggio a sprecare di meno e rispettare di più la nostra terra, un giorno saluteremo denutrizione e disastri ambientali. Utopie/speranze danzano nella mente davanti ai tre milioni di euro del scintillante albero della vita.

(Stefano Barbero)

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