Non ha usato mezze parole il governatore della Lombardia, Roberto Maroni. Anzi, è stato piuttosto esplicito. Renzi non ha mantenuto la parola sui costi standard, perciò «avanti con il referendum per l’autonomia della Lombardia». Il ragionamento non fa una grinza, Maroni ha ragioni da vendere.
Sull’adozione dei costi standard, assumendo il costo unitario della prestazione per valutare l’incidenza del servizio sulla spesa pubblica locale, si registra da tempo un coro unanime di pareri favorevoli. Sono tutti d’accordo, insomma, sul fatto che sia inaccettabile proseguire con il criterio della spesa storica, che premia quelle regioni che spendono di più e peggio, senza criteri di virtuosità amministrativa.
In taluni casi, il costo unitario della prestazione delle regioni più virtuose viene moltiplicato, in quelle non virtuose, sino a dieci volte. Non si può più andare avanti così, con alcune regioni che in sanità producono debiti ed esportano malati, contrapposte a quelle che sono virtuose e si accollano i malati provenienti da altre regioni. E su queste grava un residuo fiscale – dato dalla differenza tra i trasferimenti annuali dalla Regione allo Stato e quanto torna indietro – fortemente penalizzante, che serve anche per tappare i buchi di quelle non virtuose.
Ciò significa che insiste un rapporto di natura diretta fra costi standard e residuo fiscale. Perciò le regioni ai vertici della classifica del residuo fiscale – a cominciare dalla Lombardia – si battono da anni per l’applicazione del principio dei costi standard. Così il loro residuo fiscale scenderebbe di molto. Nel caso della Lombardia di circa una decina di miliardi sui 54 complessivi (a tanto ammonta infatti la rapina fiscale dello Stato nei confronti dei cittadini lombardi).
Da mesi Maroni sollecitava Renzi a inserire nella legge di stabilità i costi standard, ricevendo ampie rassicurazioni verbali. Oggi, alla prova dei fatti, il premier si dimostra per quello che è: un inaffidabile venditore di false promesse, un piazzista, un vero e proprio imbonitore. Basti ricordare come – novello telepersuasore – ha ricondotto la rivoluzione tecnologico-informatica all’enciclopedia dei “Quindici” e al walkman, messi di fianco al suo iPad, per parlare di una sfida seria e importante come quella del dopo Expo.
Perché Renzi non ha inserito – malgrado le promesse – i costi standard nella legge di stabilità? La materia è indubbiamente molto complessa. Ma da un lato l’adozione dei costi standard avrebbe comportato una consistente riduzione dei trasferimenti delle risorse dalle regioni più virtuose – che sono il bancomat della Repubblica – allo Stato centrale. Dall’altro avrebbe comportato, assai probabilmente, dei preoccupanti rischi di tenuta del tessuto sociale in quelle regioni non virtuose, che – nel tentativo di integrare i minori trasferimenti – non avrebbero avuto altra scelta, per ripianare i loro debiti, che alzare le tasse locali, in un Paese per altro già stremato dall’insostenibile pressione fiscale da parte di uno Stato davvero ingordo e predatore. In alternativa, per chiudere i buchi si sarebbero dovute rivolgere ancora una volta allo Stato, gravando direttamente sulla contabilità pubblica, per altro già sofferente per le minori entrate derivanti dai trasferimenti provenienti dalle regioni virtuose.
Renzi non solo non ha inserito i costi standard nella legge di stabilità, ma ha adottato i tagli lineari al sistema regionale; tagli che avvengono sulla base della quota di Pil coperta da ogni singola regione. Dunque, alla Lombardia toccherà la fetta maggiore: un quarto, vale a dire oltre un miliardo di euro dei circa 3 complessivi previsti. Più una regione è virtuosa, più viene castigata: questa è la filosofia di uno Stato scorretto e sleale. Iniquo, cioè non equo.
A questo punto la risposta lombarda non può che essere il referendum per l’autonomia. I sindaci delle città capoluogo e i presidenti di provincia, tutti esponenti del Pd, qualche mese fa avevano scritto una lettera a Maroni con la quale – senza mettere in discussione il referendum – invitavano il presidente della Lombardia a trattare con il Governo di Roma su due fronti: adozione dei costi standard e riduzione del residuo fiscale. Solo nel caso di una trattativa insoddisfacente sarebbe stato opportuno ricorrere al referendum per l’autonomia, che loro avrebbero sostenuto con determinazione, consapevoli del fatto che, ogni anno, la Lombardia è oggetto di una vera e propria rapina fiscale.
Maroni aveva scelto di testare la serietà e l’affidabilità del Governo – tra l’altro generando anche qualche mal di pancia in seno alla sua maggioranza – a cominciare dai costi standard, che ha chiesto venissero appunto inseriti nella legge di stabilità. E ciò non è avvenuto. Ecco perché l’unica strada che resta alla Lombardia per ribadire la propria oggettiva “diversità” – copre un quarto del Pil del Paese, ha 54 miliardi di euro di residuo fiscale e, secondo l’agenzia internazionale Moody’s, è di gran lunga più virtuosa dello Stato centrale – è quella di ottenere una maggiore autonomia politica e amministrativa per via democratica, cioè ricorrendo al referendum e radicalizzando così il conflitto con lo Stato di Roma. Il referendum per l’autonomia è davvero l’unica via.