Caro direttore,
ho avuto modo di partecipare all’incontro con Alain Finkielkraut che c’è stato martedì scorso al Centro Culturale di Milano. Rimango dentro le cose dette dal relatore e cerco di entrare in colloquio con il suo pensiero.
Parto dalla sua frase conclusiva: secondo la mentalità progressista, l’uomo non è l’artefice del male e nemmeno Dio, perché è la società che produce il male; da questa visione si arriva alla missione della politica, che deve essere capace di sanare il male.
Questo ideale ambizioso ha fatto una pessima fine: la stessa volontà di debellare il male si è rivelata malefica! Il nostro oratore aveva iniziato dicendo: Ogni cosa è avvenimento. Questa la chiave del rapporto con la realtà. L’avvenimento è qualcosa che irrompe dall’esterno e rende possibile la conoscenza. L’evento è irriducibilità del dato.
Finkielkraut ha mostrato il suo metodo applicandolo agli eventi recenti dell’attacco terroristico a Parigi.
Partiamo — ha detto — da Charlie Hebdo. In Francia è stato uno shock. Tutta la nazione è scesa in piazza. Ma si sono visti due popoli. I manifestanti che dicevano “Je suis Charlie”, dicevano che la Francia è il paese di Voltaire e di Montaigne e che voleva rimanere tale. Si è trattato di un grande movimento di unità popolare e nazionale, a cui però non hanno voluto unirsi i quartieri popolari (nelle scuole moltissimi studenti hanno affermato che loro non erano Charlie Hebdo e però non approvavano gli assassini, ma ritenevano la blasfemia un delitto). E poi viene l’altro popolo, quello che, piuttosto che stare al presente, lo spiega applicando idee oscure: la Francia deve combattere i fantasmi del passato, il razzismo, il collaborazionismo degli anni Trenta, il colonialismo. E’ intervenuta la sociologia per dire che gli assassini erano le vittime di un apartheid etnico, etico e culturale e via dicendo. Ed è così — ha detto ancora Finkielkraut — che la realtà di ciò che è avvenuto è stata coperta di buone intenzioni, e ci è stato detto di tacere e di non mischiare la dinamica del progresso con l’attenzione ai fantasmi del passato. Ma così il pensiero dei due popoli è una fuga dalla realtà: i progressisti che cercano la libertà del pensiero staccandosi dall’accaduto, e i popolari e conservatori che fanno valere il passato come monito.
Finkielkraut è poi andato avanti cercando le tracce di questa fuga dal reale.
Alexis de Tocqueville ha definito la democrazia non come un regime, ma come un processo di pareggiamento delle condizioni nella libertà delle differenze. Succede invece, nell’irresistibile progresso, che il sentimento del simile sia l’ideale.
Vedo un nuovo episodio di questo dinamismo — continua Finkielkraut — nella teoria del gender ovvero: il mascolino o il femminino sono costrutti sociali e queste costruzioni sociali sono fatte per essere smantellate. Ora, c’è del vero in questa analisi, ma nell’idea del gender, del possibile, non c’è solo l’ideale dell’uguaglianza ma anche dell’intercambiabilità (far diventare l’eguaglianza una scomparsa della persona nella sua identità reale).
Torniamo ora al concetto centrale del filosofo francese. Che cos’è il dato? Mi dite che è la Grazia, ma io sono stato indotto a riflettere sul concetto di peccato originale. Non è il peccato originale che mi affascina, ma l’idea che non è nel potere dell’uomo la liberazione dal male. Come altri, sono stato indotto a rivedere al ribasso le previsioni del progressismo politico alla J.J. Rousseau.
Il nostro oratore ha concluso così con la visione tragica della condizione umana. C’è un insegnamento — così Finkielkraut — che ci viene dai greci ed è che c’è una tragedia nella condizione umana, come è tragica l’idea che ci sia una soluzione a tutti i problemi. Credo che ci sia un senso profondo nella polemica tra Charles Péguy e Jean Jaurès: Péguy non sopportava l’ottimismo e il progressismo di Jaurès. Io sono peguyiano.
Commentando quello che ho riportato, dico che il relatore, che preferisce non parlare della Grazia ma insiste sulla tragedia umana, non ha citato la positività del reale. In tal modo però il suo sguardo critico della cultura europea è ancora dominato dal processo di auto-sviluppo del pensiero secondo la dialettica hegeliana. Al nostro oratore manca la Presenza che c’è in ogni avvenimento, in modo che ogni dato è una via della consapevolezza. A queste condizioni, la realtà non educa.
Cristo è la via, la verità e la vita, non la tesi, l’antitesi e la sintesi — che oggi producono una tale fuga dalla realtà per cui non trovano più consistenza né la persona, né la positività del reale. Nell’astrattezza del pensiero europeo prende posto solo un mondo viziato, immaginato senza esperienza, corrotto dall’indole decadente. La stessa che gli islamici estremisti considerano il modo di vivere dell’occidente cristiano.