È di giovedì scorso l’attacco dei jihadisti di Al-Shaabab al campus universitario in Kenya, dove si è verificata la mattanza di 147 persone e in particolare, ancora una volta, di cristiani. Si tratta di una sigla del terrore nero, poco nota all’opinione pubblica europea e che mio malgrado avevo già sentito nominare il precedente venerdì 27 marzo.
Yusuf Mohamed Salvatore Ismail era un diplomatico delle Nazioni Unite ucciso a Mogadiscio proprio quel pomeriggio, durante un atto terroristico rivendicato dallo stesso gruppo islamista locale che ha provocato un’altra decina di vittime per l’occasione. Ne scrivo non solo perché è una notizia che, purtroppo, non ha riscosso l’interesse generale di media e giornali occidentali, per quanto grave e sebbene mostri che il terrorismo islamista non sia circoscritto geograficamente, né limitato alla galassia dell’Isis.
Ne parlo anche perché Yusuf era il fratello maggiore di Maryan Ismail, una straordinaria donna che vive e lavora nel milanese. È in qualche modo una collega, di recente eletta membro della segreteria metropolitana del Partito democratico, ma innanzitutto un’amica. Da anni lotta contro il fondamentalismo e per la tutela delle donne straniere presenti in Italia, spesso anche qui vittime di pratiche lesive della loro dignità, come burka e infibulazione. Tra le lacrime proprio venerdì mi rivela la dolorosa notizia che colpisce, ma non piega, la sua famiglia. È forte Maryan: la sua prima reazione è quella di pregare perché il desiderio di vendetta non alberghi nel suo cuore.
Testimonianza di un’autentica persona religiosa, di fede musulmana. Per questo siamo amici, per un incontro reso possibile dalla comune umanità e da quella natura religiosa delle persone che le mette insieme costringendole a vivere la vita come convivenza. Di questo parla tutta la storia di Maryan, una donna islamica che porta il nome della Madonna ed è cresciuta in una scuola di suore cattoliche nella capitale della Somalia. Di questo parla la vita del suo fratello barbaramente ucciso. Yusuf è nato nel 1958 a Roma, poiché la madre aveva subito una mutilazione genitale che metteva a rischio la vita del bambino. La comunità familiare raccoglie soldi per mandare mamma Ismail a partorire in una clinica italiana, il Paese che nel recente passato aveva colonizzato la loro nazione africana e all’epoca ne deteneva l’amministrazione fiduciaria per conto dell’Onu.
Quando il bambino nasce, la donna, che deve ripartire in aereo nel giro di breve con il piccolo neonato, chiede di circonciderlo come prevede la propria tradizione. Nella Roma del 1958 non esiste ancora la grande moschea e non è diffusa la presenza di religiosi musulmani. Nella clinica è presente un medico ebreo, che si offre di circoncidere il piccolo Yusuf, però con rito giudaico. La madre acconsente, così come risponde positivamente alla richiesta del cappellano dell’ospedale di poterlo battezzare con il nome di Salvatore.
Questo sono i fratelli Ismail, che hanno dato tutto, fino al sangue come nel caso di Yusuf, per contrastare l’uso ideologico della religione e per affermare l’altro come un bene. Con Maryan il dialogo non è mai banale. Non è mai formale, dovuto ai ruoli politici che ricopriamo. Ha sempre come presupposto la coscienza di sé e che l’idea di libertà, come quella di giustizia e persino di cittadinanza che ciascuno porta non coincide con quella dell’altro. E la consapevolezza che tutte queste idee non costituiscono altro che tentativi di soluzione a quelle evidenze ed esigenze originarie che, infondo, rendono gli interlocutori due consanguinei.
L’amicizia con questa donna musulmana, e indirettamente con il fratello Yusuf, ha reso più familiare e meno estranea a me, occidentale moderno, la dimensione religiosa della vita. Quella dimensione contrassegnata dal senso del Mistero come orizzonte ultimo di ogni azione umana e, come scrive don Luigi Giussani, «da una concezione di Dio come pertinente a tutti gli aspetti della vita, sottendente ogni esperienza umana, nessuna esclusa, e quindi come ideale unificante».
Di fronte alla notizia dell’uccisione di Yusuf, è stata la prima reazione di Maryan a svelare tutta la mia difficoltà a considerare la dimensione religiosa determinante per tutto. Io, che avevo già incasellato quel drammatico fatto nella lettura geopolitica della cosiddetta internazionale del terrore, con possibili ricadute sulla nostra società plurale.
Eppure lei, con gli occhi pieni di lacrime, ha avuto subito parole di pietà per suo fratello, ma anche per quei ragazzini arruolati con la forza da Al-Shaabab e costretti a eseguire quella mattanza di innocenti. «Me l’hanno ammazzato…ma loro non hanno colpa» mi ripeteva. E poi quel desiderio affiorato sulle sue labbra perché non prevalessero sentimenti di odio e vendetta. Perché altrimenti la catena non si spezza. E il male viene perpetuato. Infine quella domanda profondamente umana: «Com’è possibile porre fine a questo orrore che ci ammazza tutti e devasta la nostra terra da 25 anni?».
Una domanda esplicitata ad una settimana dalle celebrazioni del venerdì santo, la Passione di Nostro Signore. Una domanda che, inconsapevolmente, sembra riecheggiare quella di San Paolo: «Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?». Questa domanda di Maryan è la mia domanda. È la domanda che ha accompagnato la settimana santa di quest’anno. «Se non esprime scetticità premessa — scrive ancora don Giussani — questa è la domanda d’una indagine appassionatamente umana, capace di sorprendere la risposta, di capire il significato di una Parola». È la domanda capace di sorprendere quell’Uomo della croce, che ha preso su di sé i nostri peccati. «Gesù è il Signore! — ha detto Francesco ai superstiti del tifone Yolanda, nelle Filippine —. Ed è il Signore dalla Croce, là ha regnato! Per questo Egli è capace di comprenderci».
Così mi sono ritrovato di fronte a Maryan a ripensare proprio a quanto detto dal Papa lo scorso 17 gennaio e che mi ha permesso di stare davanti a quel tremendo dolore senza scappare: «Io non ho altre parole da dirvi. Guardiamo Cristo: Lui è il Signore, e Lui ci comprende perché è passato per tutte le prove che ci hanno colpito. E insieme a Lui crocifisso stava la madre. Noi siamo come quel bambino che sta laggiù: nei momenti di dolore, di pena, nei momenti in cui non capiamo niente, nei momenti in cui vogliamo ribellarci, ci viene solo da tenere la mano e aggrapparci alla sua sottana e dirle: “Mamma!”. Come un bambino che quando ha paura dice: “Mamma!”. È forse l’unica parola che può esprimere quello che sentiamo nei momenti bui: “Madre! Mamma!”».