Venticinque offerte per diventare “advisor” della società proprietaria dei terreni ed aiutare a decidere, provare a studiare che cosa fare dopo l’Expo. Siamo ancora ai consigli, alle consulenze, per immaginare cosa fare dopo. E siccome di questo stallo e indecisione il Governo è stufo, ecco un tavolo “parallelo”, che esautora Comune di Milano e Regione Lombardia, e cerca di capire come evitare di trasformare un grande evento planetario nel più grande spreco della storia.



Ma andiamo con ordine: il primo maggio inizia l’evento internazionale più importante del nostro Paese dai tempi dei Mondiali del ’90, siamo alla ribalta del mondo, teatro e crocevia di cultura, politica, spettacoli, arte e turismo. Saliamo su di un palcoscenico che ha come pubblico tutto il mondo e lo facciamo così come siamo, disorganizzati e bellissimi, accoglienti e confusi. Abbiamo investito 1,2 miliardi di euro su un terreno che sta in mezzo a due autostrade, una ferrovia, un centro logistico e un carcere. L’abbiamo trasformato per sei mesi in un evento mondiale che parla della lotta allo spreco di cibo e della fame del mondo, di cultura e dialogo tra i popoli, di sostenibilità e sviluppo dei popoli e delle nazioni. Si spegneranno le luci, ognuno tornerà a casa sua con lo stupore negli occhi e buoni propositi nel cuore, un po’ migliorato e con qualche “selfie” scattato in un posto che, se non lo vedi, non credi che possa esistere. E dopo… E’ un piccolo tarlo che la manifestazione si porta dietro, e che fa parte delle sue contraddizioni: promuoviamo impegni per il domani del pianeta, ma non chiedeteci soluzioni per il  futuro di questo suo piccolo pezzo di territorio. 



All’inizio fu il sindaco Moratti, che, quando promosse la candidatura di Milano all’Expo, immaginò di “prendere a prestito” questi terreni dai loro proprietari, pubblici e privati: Fondazione Fiera Milano, Poste, Comune di Rho e i Cabassi, immobiliaristi milanesi. Poi venne il presidente Formigoni ad opporre (politicamente) un argomento di buon senso: perché regalare gli investimenti pubblici — la conseguente rivalutazione dell’area — ad un immobiliarista proprietario di un terreno senza valore? Propose così di espropriare le aree pagando i relativi indennizzi. Tra lotte interne e ritardi, si arrivò (come spesso accade) al giorno prima della scadenza, con il compromesso: acquistare i terreni ad un prezzo mediano tra il valore di oggi e quello, stimato, della fine dell’Expo. Nasce così Arexpo Spa, soci il Comune di Milano e la Regione Lombardia e con quote minori, Fondazione Fiera Milano, Provincia di Milano e Comune di Rho.



Poi cambia tutto, e i protagonisti di allora passano la mano ai loro successori. La macchina è la stessa, ma il sSindaco Pisapia, il vice Ada Lucia De Cesaris e la maggioranza in Comune sono sostenuti da forze politiche contrarie alla costruzione, allo sviluppo o alla cementificazione. Quindi si appongono vincoli e limiti che rendono la “futura vendita”, già gravata da una stima di 350 milioni di euro, di fatto irrealizzabile. 

E’ costretto alle dimissioni anche Formigoni, e la nuova Giunta di Roberto Maroni non sembra inizialmente appassionarsi all’argomento. La società Arexpo Spa naviga quindi tra bandi deserti, concorsi di idee, ipotesi molto fumose senza fondamenta economiche e urbanistiche. La politica locale, che si era intestata questa responsabilità, non riesce ad uscirne.

Sul tavolo oggi ci sono due certezze. La Camera di Commercio di Milano che ha chiesto e ottenuto che Palazzo Italia, realizzato come struttura definitiva, rimanesse dopo l’evento ed ospitasse una “cittadella dell’innovazione”, il nucleo di una silicon valley in salsa padana. La Fondazione Cascina Triulza gestirà, come casa delle associazioni e del non profit, l’edificio che le ospita anche durante l’esposizione. 

Negli scorsi mesi, poi, alcune proposte sono state avanzate e poi scartate per motivi diversi: l’idea della “cittadella della giustizia”, con il trasferimento del tribunale e degli uffici giudiziari, si è arenata sulle proteste degli operatori e sulle difficoltà nel riuso dell’attuale Palazzo di Giustizia; lo spostamento dell’ortomercato e la realizzazione di un polo logistico legato al cibo per la città di Milano è stato ritenuto difficile e poco remunerativo. Si sono fatti avanti anche alcuni privati: l’ipotesi più suggestiva è stata quella del nuovo stadio del Milan e della conseguente “cittadella dello sport”. Alla reazione entusiasta del rossonero Maroni, ha fatto da contraltare la freddezza del nerazzurro Pisapia, e i progetti della società di via Turati si sono concentrati sull’area del Portello. Da ultimo, il rettore della Statale, Giovanni Vago, sta studiando l’ipotesi di realizzare un nuovo campus universitario, sede delle facoltà scientifiche oggi a Lambrate e a Città studi. Sembra la soluzione più percorribile (per mancanza di alternative), ma si basa su un assunto: è lo Stato che deve finanziare l’acquisto dei terreni e gran parte delle costruzioni.

E’ chiaro che sul destino delle aree Expo si gioca buona parte della corsa a sindaco di Milano. Lo ha capito il Pd che, attraverso il Governo e il ministro Martina ha dichiarato di voler entrare a gestire un percorso su cui Regione e Comune hanno per ora fatto un buco nell’acqua. Lo ha capito Giuseppe Sala, che non smentisce il fascino che ha su di lui la poltrona di sindaco e dichiara che questa è la sfida su cui è necessario misurarsi. Lo ha capito Maroni che ha messo il suo avvocato personale, Domenico Aiello, alle costole dello stesso Sala, nominandolo nel consiglio di amministrazione di Expo 2015 Spa. Lo ha capito anche Claudio De Albertis, presidente dei costruttori milanesi, che ha dichiarato di essere disponibile, con la Triennale che presiede, a trasferire nei padiglioni di Expo la manifestazione internazionale sul design che organizza nel 2016. Dorme invece il sonno dei giusti il resto del centrodestra, che sul punto non ha ancora saputo diventare protagonista.

Godiamocela dunque questa Expo, in cui vedremo cose incredibili e impariamo che quello che facciamo così come quello che mangiamo ha un effetto sul pianeta e sull’ambiente che ci circonda, e non possiamo ignorarlo solo perché ricade sul prossimo mandato o sulla prossima legislatura.

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