Ed ora tocca alle zone di decentramento. Con una delibera d’iniziativa consiliare Palazzo Marino s’appresta a varare la riforma che le trasforma in municipi, «dotati di autonomia amministrativa», come recita all’art. 92 la proposta di riforma dello statuto comunale.
A ben guardare si ha l’impressione di essere di fronte ad una forte legittimazione diretta di inediti organi esecutivi (un presidente indicato dagli elettori che può nominare fino a cinque assessori), cui tuttavia non corrisponde la necessaria presenza di strumenti reali per esercitare questa decantata autonomia: il bilancio è derivato (v. art. 94), poiché non esistono entrate e tributi propri ma solo premi da parte del Comune (v. comma 2 art. 94); le funzioni sono sostanzialmente consultive e di iniziativa nei confronti del sindaco e dell’amministrazione comunale (v. comma 1 art. 95 e gli artt. 96, 98).
Per non parlare del solito refrain dell’antipolitica, che porta a ridurre a 25 il numero dei consiglieri eletti dai cittadini, senza considerare che attualmente ogni singola zona di decentramento a Milano conta circa 100mila abitanti e che un qualunque comune di dimensioni simili conta nel proprio consiglio 32 membri per legge.
Il perché di questa riforma è presto detto. Con la nascita della Città metropolitana, che ha sostituito la vecchia provincia, la legge Delrio prevede la possibilità di eleggerne sindaco e consiglio a suffragio universale unicamente in presenza di una articolazione territoriale del Comune capoluogo in municipalità dotate per l’appunto di autonomia amministrativa. A dire il vero questa è la scelta al ribasso. Il comma 22 dell’unico articolo della legge Delrio, infatti, come prima ipotesi prevede la disarticolazione del comune capoluogo «in più comuni». Questa ipotesi avvicinerebbe l’amministrazione comunale ai cittadini di Milano, segnando su base municipale lo sviluppo di un’attività di differenziazione attualmente impossibile di fronte a funzioni decentrate ma identiche per ogni quartiere della città. La disarticolazione in più comuni renderebbe necessario quel coordinamento politico tra diverse amministrazioni di un’area vasta che vuole essere la Città metropolitana. Inoltre impedirebbe quel mostro a due teste che la Grande Milano rischia di diventare se passa la riforma in discussione a Palazzo Marino.
Infatti essa potrebbe avere due sindaci: quello che siede a Palazzo Marino e quello metropolitano, che dice al primo cosa fare in tema di trasporti, viabilità e servizi di pubblica utilità. Il secondo, oltretutto, si troverebbe nella stessa situazione dei futuri presidenti di municipio: avrà una forte legittimazione popolare senza la possibilità di esercitare un reale potere autonomo. Questo perché, a differenza di quanto previsto dalla legge 142 del 1990, in cui per la prima volta il legislatore parlava di aree metropolitane, la Città metropolitana è sprovvista di un organo esecutivo (di cui invece sarebbero paradossalmente dotate le nuove municipalità) e non ha una propria capacità impositiva. Anzi, nasce con un taglio annuale del 36% sulle risorse della ex provincia.
Insomma, tanto nel caso delle nuove municipalità, quanto in quello della Città metropolitana si è di fronte ad un mero decentramento. Non al rafforzamento dell’autonomia territoriale. Se si tiene per buona la definizione di autonomia che ne dà la Carta europea delle autonomie locali, ratificata dall’Italia con la legge n. 439 del 1989, per essa «si intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore della popolazione, una parte importante di affari pubblici» (art. 2). È del tutto evidente che senza risorse non c’è alcuna capacità effettiva di amministrare. E senza una chiara ripartizione di compiti e funzioni è pressoché impossibile regolamentare una parte importante di affari pubblici a favore della popolazione.
Il combinato disposto di riforme confuse e tagli che hanno portato ad una maggiore contribuzione degli enti locali al risanamento delle finanze pubbliche (17 miliardi in 8 anni) lede quel principio di autonomia territoriale che dovrebbe informare ogni sistema statale che volesse essere efficiente nella risposta ai bisogni dei cittadini.
La riforma Delrio non ha funzionato. È bene che in fase di discussione delle riforme costituzionali in atto si prenda in esame anche il capitolo delle Città metropolitane e, seguendo il suggerimento che arriva dalla nostra ricca tradizione che getta le radici nell’esperienza dei liberi comuni, le si doti di risorse e poteri realmente autonomi.
Almeno le tre principali aree metropolitane del Paese: Milano, Roma e Napoli. Con l’obiettivo di semplificarne la disarticolazione interna in più comuni e la suddivisione in municipi del capoluogo, favorendo invece la creazione di zone omogenee con funzioni proprie. In questo modo le Città metropolitane – distinte da Stato e Regioni per diritto e per statuto politico – possono svolgere un ruolo fondamentale nella definizione del contesto amministrativo ed economico in cui operano la popolazione e le imprese del territorio.