25 ottobre 2015. Una bomba, lanciata dalla zona est di Aleppo, quella sotto il controllo jihadista, colpisce la parrocchia di San Francescodurante la messa vespertina della domenica, solitamente la più affollata.
La cupola della chiesa resiste all’impatto e la bomba esplode al di sopra del tetto. Quelli che seguono sono quaranta interminabili secondi di terrore, in cui la gente, in fila per ricevere la comunione, vede vetri e calcinacci cadere dall’alto, sente vibrare le colonne, scorge l’enorme lampadario del soffitto rimanere miracolosamente attaccato.
Nessun morto, solo pochi feriti. Padre Ibrahim raccoglie intorno a sé coloro che non sono fuggiti all’esterno, li accompagna nel giardino della chiesa attraverso le porte laterali, finisce di distribuire la comunione e impartisce la benedizione finale. Più tardi, un frammento ritrovato della bomba verrà portato giù; lo si addobberà e lo si ricoprirà di fiori e, durante la messa del 1° novembre, verrà portato come offerta all’altare.
Scriverà padre Ibrahim: “il simbolo di odio e di morte è stato battezzato ed è divenuto un segno dell’amore che perdona e dà vita. Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano l’odio e noi offriamo in cambio l’amore, attraverso quella carità che si manifesta nel perdono e nella preghiera per la loro conversione”.
Esattamente un anno più tardi, padre Ibrahim è a Milano, per incontrare una folla che riempie sino all’inverosimile la chiesa di Sant’Angelo e raccontare qualcosa di quella straordinaria esperienza che lui ed i suoi confratelli vivono ogni giorno nella loro parrocchia, situata nella zona ovest di Aleppo, ad appena “sessanta metri dalla linea del fuoco”.
Ci ringrazia per essere usciti di casa nonostante una fredda ed umida serata di autunno, lui che viene da una città dove non c’è più luce, né acqua, né cibo e dove i missili piovono incessantemente da ogni parte, sia di giorno che di notte.
E a noi, magari, tornati a casa stanchi dal lavoro, carichi dei nostri stress quotidiani, è parso di fare pure un po’ di fatica, staccandoci da una comoda tavola dopo aver cenato, dalle nostre chiacchiere, dagli schermi della televisione e dei nostri cellulari.
Di fronte a noi c’è un frate dai toni dolci e pacati e dal sorriso disarmante, che sta per introdurci all’inferno, un racconto dettagliato di ciò che accade in quella che, nel 2012, alle soglie del conflitto, era invece una splendida città della Siria, un luogo dove più di due milioni di persone sperimentavano una convivenza possibile tra etnie e religioni diverse. Racconta di un bambino di sette anni, colpito da una pallottola in testa mentre giocava nei pressi dell’oratorio e di quella mamma che non riesce a staccarsi dal suo lettino di pronto soccorso sino a che il cuore del suo figliolo non smette di battere. Come si fa a parlare di fede e di speranza durante il funerale, ci chiede padre Ibrahim, di fronte a tanto dolore; eppure il suo volto non smette di sorridere davanti a noi, neppure per un istante.
Durante la serata si snoda il racconto delle condizioni della città dopo quattro anni di guerra e di tutto quello che i francescani stanno facendo per la popolazione. Gli acquedotti sono stati deviati e la gente è senz’acqua. La luce non c’è più e sono pochi quelli che riescono a comprare, a caro prezzo, i pochi ampère prodotti dai generatori, sufficienti a malapena per accendere un paio di lampadine per poche ore.
C’è carenza di medici ed infermieri, non ci sono farmaci per curare gli ammalati. Due terzi della popolazione sono fuggiti, trovandosi all’improvviso con la casa distrutta dalle bombe, i familiari sepolti sotto le macerie e senza lavoro. Ma un terzo è rimasto ancora lì, ancorato a ciò che resta, in un’esistenza vissuta in condizioni disperate. Lo spettro della depressione si abbatte sui pochi sani e sopravvissuti, che non sanno come far fronte alla guerra, che continua ad infuriare senza tregua.
La carità s’ingegna e padre Ibrahim e i suoi, aiutati da tanti volontari, cercano di far fronte ad ogni necessità. Si compra l’energia elettrica per far funzionare il pozzo del convento e si distribuisce tutta l’acqua che c’è. La gente si mette in fila per ore, ma ci sono anche autisti con i loro camioncini che la portano agli anziani che non sono in grado di muoversi.
Si costruiscono anche serbatoi per raccoglierla nelle case, si preparano i pacchi alimentari, si compra l’energia elettrica per le famiglie, si distribuisce tutto quello che si ha. Una squadra d’ingegneri e muratori si reca nelle case distrutte dai missili e, lentamente, le ricostruisce, sino a renderle persino migliori di prima, perché la carità non guarda solo al necessario, ma vuole donare anche la bellezza.L’oratorio estivo viene fatto funzionare oltre tre mesi, persino una vecchia piscina è rimessa in uso per dare un po’ di sollievo alle famiglie coi loro bambini. Si aiutano quelli che hanno bisogno, si cerca la gente per le strade subito dopo un bombardamento; si dà una mano a tutti quanti, cristiani e musulmani.
Per tutto il tempo, padre Ibrahim non ha parole contro alcuno, né contro il famigerato califfato, né contro le potenze straniere o i singoli individui. Dal suo racconto non emerge mai un’accusa, non un segno di tristezza o di sconforto. Quella che affiora, prepotentemente, è la gioia della carità, quella di chi dona tutto, senza riserve, e fa esperienza della provvidenza, che restituisce cento volte tanto.
Una carità che è atteggiamento di fondo della vita, coraggiosa, generosa, creativa di fronte ad ogni singola situazione, e che racconta di un Dio che continua a camminare in mezzo alla strada insieme a noi. Padre Ibrahim narra anche della straordinarietà di un popolo che non perde la speranza, prega col volto deturpato dalle esplosioni, affolla sempre più la chiesa durante le funzioni; e di giovani che frequentano i corsi di preparazione al matrimonio, perché qui c’è ancora il desiderio di sposarsi e di mettere al mondo figli.
E’ uno spettacolo di bellezza in mezzo alle macerie e quella che nasce, come viene detto alla fine dell’incontro salutandolo, è una sana invidia, perché anche noi si vorrebbe vivere così, pur in mezzo alle fatiche del quotidiano che pure appaiono ora infinitamente piccole rispetto a tutto ciò che abbiamo visto e sentito.
Si esce dalla chiesa con un cuore rinnovato. Quel cuore che si è svuotato, di fronte al racconto di tanto strazio, ma che si è riempito della fede incrollabile di padre Ibrahim, che ha ridonato a tutti quella gioia che sembrava perduta.
Sulla metropolitana sfogliamo il suo libro – Un istante prima dell’alba – che è andato a ruba al termine dell’incontro. “Ad Aleppo continuiamo a vivere la nostra via crucis – scrive – e la sofferenza è sempre enorme e il peso da sostenere veramente grande. Quando non abbiamo più armi per combattere il male, quando sentiamo che il male prevale, come figli desideriamo correre subito verso l’abbraccio materno di Maria, emanazione della tenerezza e della misericordia di Dio”.
E il 13 maggio scorso, tutta Aleppo è stata riconsacrata al cuore immacolato della Madonna. Le ultime parole del libro sono proprio la preghiera d’invocazione alla Madre di tutti, accompagnate da un’incitazione di padre Ibrahim che riguarda ciascuno di noi: “vogliamo che nella nostra vita vinca sempre il bene, essere sempre più seri nel nostro cammino di cristiani”. No, il male non avrà davvero l’ultima parola sul destino del mondo. E sulla strada che porta verso casa, col pensiero che torna inevitabilmente anche ai nostri affari, alla famiglia, al lavoro, alle difficoltà nei rapporti, c’è una speranza che si è riaccesa. Grazie, padre Ibrahim.