Milano è la mia città. Io abito a Mendrisio, che è periferia di Milano. Se guardiamo un’immagine satellitare che io tengo sempre nel mio studio si vede molto bene che la forza centrifuga e centripeta di Milano fa sì che tutto il contesto territoriale dalle Prealpi giù fino a Milano è un unicum urbanizzato. La cosa che mi impressiona sempre è che il più grande parco recintato d’Europa, il parco di Monza, in realtà sembra un giardinetto in mezzo all’agglomerazione continua dell’insieme. Sviluppo alcune osservazioni utilizzando Milano come archetipo della città europea. La prima osservazione da fare è che in una società attraversata dalla globalizzazione, come quella in cui noi viviamo, la ricerca della propria identità passa necessariamente attraverso il senso di appartenenza ad un territorio. Noi abbiamo bisogno di un territorio, di un contesto, che non è unicamente un contesto fisico, geografico; il contesto geografico narra di un contesto di storia, di memoria, di cultura, che ci appartiene. Per essere veramente globali noi abbiamo bisogno di essere profondamente locali. Tutti noi abbiamo il cellulare in tasca e viviamo in tempo reale, almeno in taluni momenti, parti del mondo; però noi siamo e ci connota un’identità che riconosciamo appartenere alla nostra storia, alla nostra cultura, al nostro territorio. Il territorio fisico è molto importante. Parigi è un’altra realtà, Londra è ancora un’altra. Ecco, se è vera questa possibile equazione, che l’identità passa attraverso il senso di appartenenza ad un territorio, noi, anche senza che lo sappiamo in termini di coscienza critica, abbiamo bisogno di un’identità che ci appartiene. Allora la città diventa importante: quando siamo in giro per il mondo ci domandiamo: “Tu da dove vieni?” “Io vengo da Milano”, “Io da Parigi”, “Da Amsterdam”, “Da New York”, “Da Pechino”.



La città esercita un fascino molto più importante e molto più forte perché legato all’identità delle nazioni. Individuandosi con l’identificazione di una città, si racconta molto di più di un’appartenenza a un paese politico, la città è un modo per radicarci alla terra madre. Noi dicendo il nome della nostra città riconosciamo il senso di appartenenza, ci leghiamo all’idea stessa di una storia per cui ci riconosciamo come parte dell’umanità. Questo è molto importante in un momento dove sembra che tutti vivano il globale. Noi ci riempiamo la bocca di globale ma viviamo nel locale: questa è la prima osservazione. Il mio è dunque un elogio a Milano, riprendendo attraverso la sua idea di essere città e città madre e rileggendo il bel libro di Doninelli “Michetta addio – Storie di una città madre”.



La seconda osservazione è che la città, ancor oggi, è la forma di aggregazione umana, sociale, politica, più intelligente, più colta, più flessibile, che l’umanità abbia mai costruito. Non c’è altra forma di aggregazione umana così performante. La storia dell’umanità è fatta dal bisogno di aggregarsi, per una serie di motivi, non ultimo il bisogno inconscio di vincere il sentimento terribile della solitudine, per condividere delle storie, dei turbamenti, degli amori, delle battaglie, delle sconfitte, che ci appartengono. Noi, in questo modo, in città, ci sentiamo partecipi di una storia che non è la storia privata nostra, ma che è la storia privata della nostra parte di umanità. Allora da questo punto di vista è difficile anche sconfiggere la città. Se io confronto il modello della città europea con il modello della città americana o il modello della città asiatica, devo riconoscere il primato della città europea. La città europea rispetto al modello della città asiatica è l’Everest. A cosa è dovuta questa capacità di avere degli anticorpi talmente forti dal punto di vista intellettuale che ci fa dire che vi è questo primato? Non certo la distribuzione tecnica o funzionale.



Eccetto Rotterdam, per fare un esempio, o la periferia di Rotterdam, o la periferia di Pechino, che dal punto di vista strettamente funzionale forse va meglio; perché ci si arriva in auto, si può prendere l’ascensore, si arriva direttamente sul proprio letto. Ma quel che noi cerchiamo nella città non è questo: ancora oggi, e mi sorprende, ogni volta che si parla con la gente e si cerca di farla parlare oltre ai luoghi comuni, si vede ad esempio che i cittadini riconoscono la migliore qualità di vita all’interno dei centri storici, in particolare in Italia. Se noi domandiamo a cento persone dove vi è la migliore qualità di vita, questi citano Parma, Treviso, Venezia, Verona, il centro storico italiano. Paradossale, perché sono le città che rispondono peggio dal punto di vista tecnico-funzionale, sono le città dei morti, sono le città dei popoli estinti, sono le città che rispondono ai nostri bisogni in termini di memoria, di storia, di cultura; non ci abbandonano mai, all’interno di queste città non siamo mai soli, perché possiamo vivere gli eventi, le avventure, le lotte, le dispute che indirettamente ci appartengono. Ma dal punto di vista tecnico-funzionale dobbiamo lasciare la macchina al Tronchetto, prendere un altro mezzo, andare a Venezia, salire cinque piani sulle scale ripide.

Con questa osservazione si comincia a far apparire come il valore della città non sia dato dagli elementi tecnici e funzionali, ma ci siano altrove altri elementi, ad esempio quelli della convivenza attraverso questa memoria. Ho detto che la mia città è Milano; ma questo risale a Milano a quando mia nonna, una donna di servizio di un signore di Luino, mi raccontava che veniva alla Scala di Milano col calesse, alla fine dell’Ottocento, inizio del Novecento. Io bambino restavo incantato da questo viaggio iniziatico coi servitori dietro sulle carrozze dei padroni, che poi rientravano alle tre, alle quattro di notte.

Devo dire che quando mi sono occupato della ristrutturazione della Scala di Milano questo ricordo ha giocato un ruolo importante. Lo stesso edificio parlava dei signori padroni di mia nonna, parlava di mia nonna; mia nonna faceva questi grandi sacrifici, era nel parterre, che era il luogo dei servitori, in piedi, e viveva le stesse emozioni, ovviamente di forme espressive diverse, che io avevo il privilegio di vivere cento e qualche anno dopo. Ecco, la città è anche questo; la città porta con sé una serie di memorie che vanno oltre l’utilizzo e la critica che noi possiamo vedere attraverso un consumo che ne abbiamo fatto nell’ arco di qualche decennio. Non a caso, e mi è piaciuto, nel libro di Doninelli vi è questa insistenza sul ruolo degli anziani all’interno della città. Gli anziani sono ancora delle testimonianze vive, prima che le testimonianze di pietra parlino alle generazioni future di questo.

Però dobbiamo fare molta attenzione noi vecchi europei, perché se noi non abbiamo cura delle nostre città e disgreghiamo il nostro tessuto non buttiamo via solamente gli elementi distributivi e tecnici, ma perdiamo una serie di valori, di anticorpi, che io ritengo fondamentali. Vorrei dire di più: se questi valori di storia, stratificazione, cultura, che sono la terra madre della città, non fossero così forti, probabilmente saremmo in balia della banalizzazione, del consumo, dell’appiattimento, che inevitabilmente la cultura del globale porta. Noi possiamo godere del globale perché abbiamo queste radici così profonde. Si potrebbe spingere il discorso ancora oltre. Vedere la città europea con questi valori che ho cercato di descrivere, come una forma di resistenza alla follia della guerra. Se Milosevic avesse avuto la consapevolezza che la città aveva questa stratificazione di cui lui era parte, probabilmente non avrebbe distrutto la biblioteca di Sarajevo.

La logica perfino della guerra dovrebbe riconoscere la sacralità della città; perché la città non rappresenta il nemico. Il nemico è una presenza pro tempore; per caso c’era questo nemico, poi tra dieci anni cambia, di questi tempi anche dopo qualche breve stagione, la connotazione della città. Se noi riuscissimo a far sì che questa storia dell’umanità riemerga dalla città fisica, la città fisica poi comporterebbe la città sociale, con anche nostre critiche alle periferie urbane, alla qualità che manca, etc… Ma come è possibile avere una città fisica idilliaca se la città sociale è ghettizzante, è violenta ed esclude la partecipazione collettiva? Da questo punto di vista la città è uno specchio impietoso, è lo specchio, è l’espressione formale della storia.

La città dà forma alla storia, infatti noi riconosciamo in tutte le città del mondo i diversi periodi storici; questa è l’altra forza. Noi entriamo in città, non importa in quale, e riconosciamo immediatamente un tempo storico: questi sono gli anni Ottanta (quando arriviamo dall’ aeroporto), gli anni Sessanta, l’inizio secolo, l’Ottocento, il Rinascimento, il Medioevo.

Non importa in quale città. Questa è un’altra forza incredibile: la città come testimone di una stratificazione, di un tempo storico che ci appartiene, come territorio della nostra stessa identità. Se guardiamo Milano da questo punto di vista, io credo che le osservazioni fatte siano straordinarie perché corrispondono. La città sociale che è descritta, questo spaccato antropologico, io l’ho letto cercando di immaginarlo nel tessuto, che non sempre conoscevo, dei diversi quartieri, delle diverse strade, delle diverse piazze. La forma fisica diventa un testimone di un qualcosa che, certo, si sta smarrendo, ma questo è l’altro grande equivoco: non dobbiamo aver paura che la città cambi, la città nel cambiamento si rafforza.

La città lascia una certa configurazione, e quindi una certa destinazione d’uso, necessariamente da un tipo si trasforma in un altro. Ma all’interno di questo cambiamento trova le sue risorse per rafforzarsi. Noi parliamo di stratificazione storica: quello che era stato viene seppellito ma permane il grande bisogno della città, la città madre, la città che ci accoglie, la città che ci consola, la città nella quale noi facciamo quotidianamente riferimento. Il vero problema è quello che noi dobbiamo e non sappiamo costruire delle parti delle città che hanno la stessa dignità. Il vero problema, ora, è come noi adesso stiamo trasformando gli spazi, perché l’evoluzione della vita e dei costumi è inevitabile e laa rivoluzione elettronica ha cambiato il nostro modello d’uso della città.

 

(Mario Botta)