Milano sta vivendo, in questi anni, un momento di felice caos, dietro cui si profilano enormi cambiamenti, rispetto ai quali quelli già avvenuti non sono che la premessa. La fase che io chiamo ”caotica” è un momento fondamentale e insostituibile in ogni processo di mutamento, che è sempre un processo creativo. Il cammino per così dire alla cieca appartiene allo sviluppo e alla trasformazione di ogni città o civiltà, a ogni rivoluzione politica o scientifica, a ogni grande opera d’arte. Esiste un preciso momento, nel processo creativo, nel quale il quadro d’insieme dev’essere perso, smarrito, nel quale si deve avvertire il soffio di un’impresa in corso, della quale non si possono avere tutte le coordinate. Così Milano ha visto allargarsi il proprio centro, si è trasformata in una città bella, in un’attrattiva (addirittura) turistica, e questo non solo grazie all’Expo ma grazie anche a un ri-posizionamento dentro il tessuto cittadino di grandi aziende e imprese: da utenti di una porzione di territorio queste realtà si stanno trasformando in soggetti attivi (stakeholder, mi sembra li chiamino), interlocutori di chi sta alla guida della cosa pubblica (istruzione, opere pubbliche ecc.) sullo stesso territorio. Questo non significa tuttavia che la città veda con chiarezza il senso del proprio sviluppo. Si interviene su quartieri periferici, si riqualificano aree, ma non è detto che da tutto questo emerga un’idea chiara complessiva.
Si ha spesso l’impressione che quella felice caoticità di cui parlavo si possa trasformare in una casualità interessata. Il caso, purtroppo, si addice ai furbi, e in questo caso viene presto il momento in cui artisti, sognatori e utopisti devono farsi da parte. Finora, per superare questa impasse, ci si è affidati ai modelli urbanistici: uomini di ingegno fine hanno cercato di immaginare la Milano di domani visualizzandola su quotidiani e sul web attraverso rendering accattivanti. Tuttavia, chi ha avuto la fortuna di realizzare in modo completo un pezzo importante di questi modelli ha anche compreso che, per offrire un paradigma davvero completo a tutta la città (e non soltanto ai quartieri interessati all’intervento), non bastano i modelli urbanistici, non basta cioè l’immaginazione nutrita di razionalità: occorre un modello culturale, occorrono le idee – non immagini razionali, ma ragioni forti. Su questo punto mi permetto di offrire il mio contributo.
Dal Passato alla Storia
Alla fine, lo slogan è questo: occorre traslocare il Passato nella Storia. Tutto il mio contributo si concentra in queste parole che possono sembrare banali e invece non lo sono, perché proprio su questo punto la nostra città ha balbettato anche in questi anni. Anche a livello di grandi istituzioni culturali le idee sono tutt’altro che chiare. Milano soffre di una malattia italiana che si riflette spesso anche sui suoi mezzi d’informazione, che ne ripetono la nefasta dinamica.
Lo chiamo passatismo, vale a dire il mito di una sorta di età dell’oro nella quale i sessantenni di oggi si rivedono giovani, poveri e felici. Si rimpiangono i bei tempi del Quartetto cetra, delle Canzoni della Mala, di Gaber, di Jannacci, del “Derby” e pensiamo: ah, quella sì era Milano. Oppure:lì c’era lo spirito di Milano. Nella bella mostra Inside out, a Palazzo Reale, le orecchie del visitatore di una rassegna dedicata agli scatti dei fotografi stranieri sul nostro paese vengono ammorbate da canzoni come Sapore di sale, quasi che in quell’esistenzialismo un po’ d’accatto risiedesse il segreto di qualcosa che abbiamo perduto: eravamo poveri e belli, mentre adesso siamo ricchi grassi e senza ideali.
Per quanto mi riguarda lancerei volentieri la mia maledizione sui mitici anni Cinquanta, sui favolosi anni Sessanta, sui drammatici anni Settanta, sulla Milano da bere degli anni Ottanta e sulla Tangentopoli dei Novanta se non sapessi che proprio in quell’epoca – e non solo in quella – esiste una radice buona, utile per il presente. Migrare dal “passato” alla “Storia” (proprio di migrazione si tratta) vuol dire proprio questo: trasformare il passato in presente, perché la Storia non è il passato, bensì la presenza del passato. Vuol dire che Gaber, Jannacci o Strehler devono diventare un patrimonio del mondo, che ciascuno – milanese o cinese che sia – ha il diritto di fare proprio. Ma come fa il passato a diventare presente? Il passato diventa presente se le ragioni per cui un bene materiale è considerato patrimonio possono essere estese ai beni immateriali.
Ora, Milano è per eccellenza la città dei beni immateriali, dei beni mobili. Questa è la sua forza, qui sta la sua unicità. Le opere di Enzo Jannacci, Giovanni Testori, Giorgio Gaber, Giorgio Strehler e tanti altri sono beni culturali di Milano esattamente come lo sono il Duomo o il Cenacolo. E’ un’idea semplicissima ma tutt’altro che ovvia alla maggior parte degli operatori (culturali e non, perché della cultura fruiscono tutti e tutti ne usano i principi, non solo gli addetti ai lavori). Eppure il problema sta esattamente qui – e non mi vergogno di fare la figura dell’ingenuo: la verità spesso è banale, lo diceva Giovanni Testori, lo diceva Pablo Picasso, e così è. Già Bonvesin de la Riva, nel 1288, lo rimarcava: il segreto di Milano non sta nella sua immutabilità, ma nella sua capacità di cambiare. Roma fu fondata da Romolo e Remo, mentre le fondamenta stesse di Milano sono un cantiere incessante nei secoli, mai chiuso, come l’Opera del Duomo.
I padri fondatori di Milano si chiamano Ambrogio, Agostino, Francesco Sforza, Leonardo Da Vinci, Cesare Beccaria, Giuseppe Parini, Alessandro Manzoni, Carlo Emilio Gadda, Giò Ponti, Giorgio Strehler, e così via: tutti padri fondatori, tutti rigeneratori di cittadinanza, di civitas. La loro presenza è come quella degli Impressionisti a Parigi, che trasformandosi da città in metropoli ha saputo trasformare il proprio passato (compreso quello che non è mai esistito) in attrattiva del presente. Oggi questa trasformazione in metropoli è un passaggio che spetta a Milano.