«Il mio sogno è che, se i cittadini di Milano mi sceglieranno come loro sindaco, tra cinque anni la città sia più sicura, abbia ritrovato un disegno di futuro e abbia ripreso un percorso di innovazione. È il momento di farlo. È oggi che dobbiamo costruire la città dei prossimi vent’anni». Stefano Parisi, candidato sindaco del centrodestra, è nel suo “quartierino generale” di via Fiori Chiari, cuore del cuore di Milano, con pochi collaboratori, un sacco di telefonate, post-it, appuntamenti. Ottima cera: si vede che gli piace, si vede che ci scommette sul serio.
E come dev’essere, dottor Parisi, questa Milano degli Anni Trenta del terzo millennio?
La Milano che mi piacerebbe contribuire a delineare dev’essere diversa, rigenerata nel suo tessuto urbano, con tutti i quartieri riqualificati, con le attività scientifiche e tecnologiche ad altissimo livello che in parte già ha e in parte deve sviluppare, con una nuova linfa economica e produttiva, con il recupero pieno dell’effervescenza di iniziativa che l’ha sempre contraddistinta, facendola essere la locomotiva del Paese.
Un bel disegno, indubbiamente. Ma come attuarlo senza soldi? I Comuni non ne hanno più!
Dall’ultimo anno della gestione Moratti a oggi le tasse comunali sui milanesi sono raddoppiate. In gran parte è stata una conseguenza del patto di stabilità, cioè la riduzione dei trasferimenti dal Governo ai Comuni, e in parte dall’aumento dei costi. E nel frattempo c’è stato uno spropositato aumento degli incassi da multe.
Ok: ma come rimediare?
Muovendo tre leve. Innanzitutto bisogna rimettere in efficienza l’amministrazione comunale accelerando, anzi attuando perché è ferma, la trasformazione digitale. Si tratta proprio di reingegnerizzare tutta l’amministrazione, per costruire un sistema meno costoso e più efficiente. Poi bisogna avviare un confronto con Palazzo Chigi sui trasferimenti: da troppi anni i governi del centrosinistra e tecnici hanno fatto le loro manovre sulle spalle dei comuni. Hanno ridotto le tasse al centro scaricandole in periferia. Da Milano, il sindaco Pisapia non ha mai cercato di esercitare una leadership sul tema, ha lasciato l’iniziativa a Torino nella guida dell’Anci, che è stata quindi sempre autolesionisticamente filogovernativa. Milano deve riprendere la guida dei Comuni del Nord per riportare qui almeno una piccola parte dell’enorme gettito fiscale che proviene dalle attività economiche e dal reddito dei milanesi. Il terzo piano d’intervento riguarda gli investimenti. Dobbiamo trovare formule che rimettano in moto l’economia e un’opportuna deregolamentazione dello sviluppo urbano che riattraggano gli investimenti privati, com’è successo virtuosamente con City Life e Porta Nuova. Tutto questo porterà risorse e gettito fiscale per i servizi sociali e i nuovi bisogni.
Nuovi bisogni: come quelli che derivano dall’immigrazione?
È un tema complesso. Non illudiamoci che lo si governi integralmente a livello cittadino, sarà un tema cruciale a livello continentale per i prossimi vent’anni… Però noi possiamo e dobbiamo prepararci a gestirlo in maniera più solida di come sia stato gestito finora. L’antinomia non è tra l’accoglienza e il rifiuto, ma tra il modo in cui si gestisce l’integrazione, tradizionale e inefficiente o innovativo e quindi sostenibile.
In concreto?
Prioritariamente va misurata la capacità di assorbimento dei nuovi immigrati nel nostro tessuto urbano. Oggi l’enorme flusso di immigrazione irregolare in Italia è indotto da ragioni economiche, di sostentamento, e solo in minima percentuale da ragioni politiche. Il primo problema è dunque quello dei tempi di rimpatrio degli immigrati a movente economico. Perché il canale di ritorno non funziona? Certo, per tante ragioni diverse, per esempio la difficoltà di identificare persone molto spesso senza documenti. Ma anche per ragioni burocratiche: una volta che un tribunale stabilisce un rimpatrio passano 2 o 3 anni prima che venga attuato. Questo dato di fatto determina una forte pressione logistica e abitativa. Vengono occupati molto a lungo i centri d’accoglienza, eliminando spazi pensati per gli immigrati politici… Ovviamente questo stato di cose va cambiato.
E gli immigrati regolari?
Quanto a loro, io vedo solo un problema, ma importante: cioè che devono rispettare le nostre regole. Il popolo italiano ha una lunga storia di emigrazione, e ovunque nel mondo ha imparato a rispettare le regole dei Paesi dove andava. Dobbiamo pretendere lo stesso da chi immigra da noi. Questo significa che devono avere un lavoro, lasciare le donne libere, pagare le tasse e gli affitti. Altrimenti la pressione migratoria si scarica in modo lesivo sulle aree più fragili della città… E ciò comporta il rischio che la nostra cultura venga soverchiata dalla forte identità culturale e religiosa degli altri. Dobbiamo lavorare molto sul fronte culturale affinché le nostre radici culturali siano rispettate e semmai valorizzate. Ed è questa una parte del problema che sicuramente può e deve essere gestita anche localmente, anche in nome della libertà di culto. Ma le nostre regole devono essere rispettate. Invece oggi c’è un degrado terribile in certe aree, ci sono classi col 70-80% di bambini non italiani, realtà che vanno gestite con attenzione. In sostanza, dobbiamo rendere buoni milanesi tutti gli immigrati che arrivano per restare con buone intenzioni.
Qui è d’obbligo toccare il tema della sicurezza…
Certo, è il tema numero uno, un problema sentitissimo. Un problema che va affrontato senza populismo. Abbiamo un grave limite: gli uomini. Alfano ci ha detto che la buona notizia è che ci mantiene gli stessi uomini delle forze di polizia dell’anno scorso. Quindi i mille uomini in più da mettere non ci sono. Come rimediare? Molto si può fare con l’uso della tecnologia. Oggi a Milano funzionano 1500 telecamere del Comune più migliaia private. Si possono sostituire gli occhi umani con una simile rete. E aggiungere intelligenza artificiale per attivare gli allarmi giusti. Si istruisce il sistema a reagire con degli allarmi di fronte a immagini sospette: persone col volto coperto, passaggi di auto o persone ripetuti a breve distanza negli stessi tratti… Ci son infinite soluzioni. Già oggi c’è tanto di registrato, ma nessuno monitorizza.
Da city-manager lei ha condiviso la stretta collaborazione con la Procura voluta dal sindaco Albertini. Seguirà quella strada?
Assolutamente sì, in generale sul tema della sicurezza e anche della libertà economica, per arginare le infiltrazioni mafiose nell’economia, dobbiamo attivarci sulla prevenzione, che si ottiene appunto collaborando con la Procura e con le forze dell’ordine.
Un’ultima domanda. Ma chi glielo fa fare? È stato un top-manager, fa l’imprenditore… si va a prendere una super-rogna per un medio stipendio statale. Perché?
Potrei limitarmi a rispondere come ho sempre sentito fare a domande di questo tipo, anche perché ci credo veramente: che cioè sia giusto a chi come me ha avuto tanto da un Paese o da una città restituire qualcosa col proprio impegno. Per me questo è particolarmente vero perché tutte le cose più importanti della mia vita, i punti di svolta, le affermazioni, sono avvenute a Milano. Ma c’è un’altra cosa. Quello che mi è capitato è un fatto storico, ho trovato una coalizione molto ampia pronta a sostenermi, che comprende alcuni partiti dell’opposizione e un partito che invece appoggia l’attuale governo, una coalizione che ha puntato su di me senza che lo chiedessi, con insistenza e decisione, il che mi ha responsabilizzato. Dopo di che aggiungo che sono stato nella Pubblica amministrazione per quindici anni, tra Roma e Milano, ed è un ruolo, un mestiere, che ho nel sangue.
(Sergio Luciano)