E’ vero che un quarto d’ora prima di morire siamo ancora vivi, come diceva Bernard de La Monnoye. E’ così per tutti, ma per Nanda Consonni, anima della Galleria Ponte Rosso, scomparsa il 7 aprile a Milano, lo era in modo particolare. 

Nonostante l’età non più verde — aveva ottantacinque anni — eravamo così abituati a vederla nelle stanze della sua galleria in via Brera 2, tra i quadri che amava e i cataloghi che aveva pubblicato disposti sul tavolino (dove non mancava mai il vassoio delle caramelle Rossana, nate più o meno negli anni in cui era nata lei); eravamo così abituati, dunque, alla sua vitalità che non riusciamo ancora a credere alla sua scomparsa.



Ferdinanda o, come tutti la chiamavano, Nanda era competente e onesta come pochi, generosa come nessuno. Aveva iniziato a lavorare accanto al marito Orlando, che nel 1955 aveva fondato la casa editrice Ponte Rosso e nel 1973 aveva aperto l’omonima Galleria.

In un’Italia che all’epoca divideva nettamente l’arte figurativa da quella astratta, e per figurazione intendeva quasi sempre il realismo sociale, i Consonni avevano scelto una via diversa: una pittura lirica, attenta alla natura e al paesaggio, al colore e alla luce. Sapevano che la realtà è più complessa delle ideologie.



Avevano promosso così — insieme, più tardi, al figlio Alessandro — l’arte della prima metà del Novecento soprattutto lombarda e veneta, come il chiarismo, la Scuola di Burano, il cenacolo di Bagutta. Erano legati alla magia della pittura, lontano da concettualismi e sperimentalismi. Non erano però laudatores temporis acti. Conservavano la memoria del passato, sapendo che senza memoria non c’è futuro ma, nel solco della poetica che seguivano, sapevano aprirsi anche al presente. Come è successo, per esempio, con Letizia Fornasieri che ha tenuto la prima mostra proprio alla Ponte Rosso.



Scomparso Orlando, di cui era sempre rimasta innamorata come un’adolescente, Nanda aveva proseguito il lavoro da sola, con quella umiltà che è sempre sintomo di intelligenza. “Io non sono colta” diceva, e con quelle parole dimostrava di esserlo, perché la cultura è la consapevolezza di quello che non si sa. Lei, poi, gli artisti li aveva conosciuti da vicino ed era sorretta da un gusto non comune. Difficilmente sbagliava la scelta di un quadro.

A Nanda ho voluto bene, molto, come tutti quelli che l’hanno conosciuta. Mi è capitato spesso di pensare che, se tanti fossero come lei, il mondo dell’arte sarebbe migliore. O, almeno, più piacevole. 

Se ne è andata in un momento di crisi (del mercato e non solo) e ha fatto in tempo a sperimentarne tutta la gravità. Aveva dovuto — come, del resto, tanti galleristi oggi — ridimensionare i suoi progetti e assistere a un preoccupante disinteresse per i maestri che aveva amato. Sono gli alti e bassi del mercato, per non dire della vita. Eppure affrontava i tempi con serenità, senza scordare mai quel realismo che per lei non era solo un modo di dipingere ma anche una visione del mondo.

Diceva Rilke che “viviamo per dire sempre addio”. Ma confidiamo che Nanda ora abbia trovato la Luce in cui credeva, e di cui aveva cercato nella pittura, tutta la vita, le tracce e il presentimento.