Una metropoli non si distingue da un’altra città solo per il numero di abitanti. Una metropoli è un numero primo, una città-madre, una città-matrice. Per questo quando si comincia a trattare di metropoli non ci si può limitare a discutere di modelli: una metropoli è infatti essa stessa un modello, per questo è pressoché impossibile attribuirgliene uno. Una metropoli, in sostanza, non ha modelli veri e propri perché è un modello.
Nell’affermare la sua unicità, ossia il suo valore insostituibile, necessario per il mondo, la metropoli raccoglie su di sé tutta una serie di valori culturali, economici, sociali e politici.
Una metropoli è — so che il termine è ambiguo — una città-stato: lo è nel senso che non può essere semplicemente il capoluogo (amministrativo, culturale ecc.) di una porzione di territorio, perché il suo valore, in suo senso sussistono in sé, al di là del ruolo esercitato, che è occasionale. Alcune gestioni del comune milanese e della regione lombarda ci sono apparsi, nel giro di pochi anni, vecchie di secoli.
Milano non è né il capoluogo della Lombardia né la cosiddetta capitale morale d’Italia, ma una città-stato con una classe dirigente in proprio, con la quale la classe dirigente del Paese (sempre che ne esista una) deve trattare in qualche modo da pari a pari. Lo stesso vale per città come New York, Parigi, Londra, Shanghai. Milano sta facendo il suo ingresso in questo rango: è ormai una città “italiana” o “lombarda” nel senso in cui si può dire che Londra è una città “inglese” o New York “americana”. Un senso molto diverso da quello che avremmo se parlassimo di Siena (ma perfino di Roma), di Montpellier o di Manchester.
Il suo modello fondamentale non è urbanistico ma ideale: la sua unicità sta nella rete dei suoi beni immateriali, di cui porta traccia il più bello ma anche il più sottovalutato dei suoi musei: il Museo della Scienza e della Tecnica.
Ogni volta che andiamo a Parigi incontriamo arte parigina, musica parigina, incrociamo figure storiche parigine. E questo perché Parigi ha trovato il modo di raccontarsi, di trasformare la propria storia in racconto. Ogni volta che andiamo a Parigi incontriamo un racconto, mille racconti, e sappiamo che Parigi è la sommatoria dei suoi racconti: ciascuno di essi — dalla leggenda di Quasimodo agli eccessi di Saint-Just — alimenta il grande racconto della città, lo arricchisce, lo complica, lo devia. E’ la festa mobile del XXI secolo.
Lo stesso deve accadere a Milano. A Milano dobbiamo incontrare la presenza della sua storia attraverso una azione narrativa capace di rendere presente il suo patrimonio immateriale.
Il teatro può essere un elemento importante di questo processo, data l’importanza che le sue istituzioni culturali hanno sempre avuto nella sua storia.
Personalmente, sono persuaso che il modo migliore di vedere Shakespeare dovrebbe essere quello di andare a Londra ad assistere agli spettacoli delle compagnie shakespeariane. E’ accaduto tuttavia che opera di Shakespeare siano diventate classici del teatro italiano, opere italiane, pezzi fondamentali della storia del teatro italiano. E’ successo per esempio con La tempesta di Giorgio Strehler (che non a caso viene identificata come La tempesta “di” Strehler, usando cioè il genitivo in chiave autoriale).
Se, per fare un esempio, l’attuale Teatro Grassi, potesse divenire anche la sede permanente degli storici spettacoli di Strehler e di Ronconi, e nell’edificio che lo circonda, avere sede il Museo del Teatro Milanese, questo sarebbe un modo possibile di attualizzare le opere di questi due maestri: non si tratterebbe di testimonianze di una Milano passata più di quanto lo siano il Duomo o il Castello. Sarebbero in altre parole non più riedizioni di vecchi spettacoli ma un pezzo cospicuo del presente di questa città.
Così bisognerebbe imparare a pensare la storia culturale di Milano: come una rete di “case” nelle quali questo patrimonio possa continuare a vivere. Non enumero qui le possibili iniziative che questo modello potrebbe generare. Non voglio nemmeno parlare di una “Casa Gaber”, di una “Casa Jannacci”, di una “Casa Gadda”, mi limito a pensare al beneficio che le istituzioni universitarie ricaverebbero da un rapporto più stretto con la propria memoria. L’enorme patrimonio delle nostre istituzioni universitarie rischia di perdersi in una chiacchiera pseudo-tecnocratica dove la dignità di sussistenza — in mancanza di altri criteri — consisterebbe al massimo in un servizio (più ipotetico che reale) reso al mondo delle aziende, delle banche e della finanza: giovani preparati — teoricamente — ad affrontare settori che si ritengono ancora portatori di profitto. L’umiliazione che ne subiscono tutte le realtà sane ben presenti negli atenei milanesi (cattedre, istituti, dipartimenti, intese con altre università o con il mondo del lavoro) è evidente. Sembra quasi che, una volta ridotta ai margini del mercato, una disciplina perda anche il proprio valore conoscitivo, a meno che non ne recuperi su altri versanti: per esempio la letteratura, perduto il proprio statuto morale o anche soltanto estetico, cerca un rifugio nell’intrattenimento. La ragione è che l’intrattenimento costituisce un nuovo mercato, che lo storytelling è un nuovo business — chiamiamolo la compravendita di contenuti — la nuova attività estrattiva.
Un’ultima considerazione sull’università. Mille strettoie burocratico-sindacali impediscono all’università di diventare, come accade in altri paesi, un polo nella vita degli studenti, con la possibilità di farne uso anche in mancanza di personale, nei giorni festivi o durante gli orari di chiusura canonica. Non ha senso che uno studente non possa usarla per studiare e consultare bibliografie anche in tarda serata: l’università è un servizio permanente alla nazione e specialmente alle giovani generazioni. L’università è innanzitutto un servizio, ed è un servizio essenziale in un processo di ridefinizione di un’area cittadina.