Qualche settimana fa ho pranzato in un ristorante di via Paolo Sarpi, del quale mi ha attratto, sin da subito, l’insegna: “Il santo bevitore”. Il locale è gestito da un giovane imprenditore che, insieme alla moglie, ha rilevato l’attività allo scopo di rilanciarla. Il ristoratore mi ha raccontato di essere appena subentrato nella gestione del locale. In verità, avrebbe voluto sostituire l’insegna per metterne una più consona alla sua personalità e allo stile del suo ristorante. Per questa ragione, si è recato negli uffici comunali di via Larga. Con suo disappunto, i funzionari gli hanno comunicato che, per apportare la modifica, avrebbe dovuto versare circa duemila euro. Una circostanza che lo ha sollecitato a mantenere l’attuale insegna per evitare di pagare — proprio nella fase di avviamento dell’attività — una vera e propria “gabella”.
Oggi la mia azienda opera in una struttura — il World Join Center — ultimata nel 2008 e realizzata insieme ad alcuni imprenditori; già dal 2009 numerose imprese vi operano al suo interno. Nella sua modestia, è uno dei simboli di Milano. Rappresenta, infatti, una delle porte di ingresso alla città, a ridosso del Monte Stella, per chi proviene dall’asse con Malpensa e l’autostrada dei Laghi. A distanza di otto anni, dopo una serie di disappunti e chiarimenti per alcune veniali criticità nella sua progettazione ed errori della pubblica amministrazione, siamo ancora alle prese con l’adempimento dei procedimenti burocratici, nonostante l’accordo con gli uffici comunali sia totale. Nel frattempo, una parte significativa dell’area (liberata dai cantieri di un sottopasso inattivo quanto inutile, costato alla cittadinanza 200 milioni di euro) non è stata bonificata e rimessa a verde con gli adeguati interventi di interesse generale.
Infine, è capitato a una giovane donna all’ottavo mese di gravidanza di richiedere la sostituzione del pass auto per fare ingresso e parcheggiare in una zona della città. Gli uffici competenti le hanno comunicato che avrebbe dovuto recarsi in via Larga per depositare il vecchio ticket e ritirare quello nuovo. Non basterebbe, nell’era della digitalizzazione, un semplice sms o una e-mail per concludere l’operazione?
Si tratta di piccoli esempi che ognuno di noi potrebbe raccontare e testimoniano il fastidio provocato, come le “mosche d’estate”, dalla burocrazia. Un sistema che trae origine da una concezione dell’amministrazione pubblica legata a processi amministrativi e coordinamenti di funzioni non diretti al servizio della comunità, ma all’autotutela di chi la governa. La burocrazia, appesantita da norme e regolamenti che rendono complessi gli aspetti più semplici della nostra vita, rappresenta insieme con la corruzione una delle piaghe più mortificanti della nostra società. Sono due facce della stessa medaglia!
Chiunque intenda governare lo sviluppo di una città metropolitana delle dimensioni di Milano ha, oggi, il dovere di indicare una serie di proposte concrete e operative (non degli slogan, dunque) per contrastare i disservizi determinati dai processi che penalizzano la libera iniziativa e la responsabilità, elementi funzionali alla costruzione del bene comune.
Quel è il compito di una pubblica amministrazione? Rispondo alla domanda con un altro aneddoto. Qualche anno fa ho accompagnato, a New York, una delegazione di artigiani italiani per partecipare a una prestigiosa esposizione. Nell’occasione, venni cercato senza successo dalla City Hall. Preoccupato da un eventuale adempimento burocratico non rispettato, mi recai subito negli uffici dell’amministrazione. I funzionari, ringraziandomi per averli raggiunti, mi chiesero semplicemente: “Can I help you?”.
In questo atteggiamento risiede, a mio avviso, il cambiamento concettuale, organizzativo, procedurale e gestionale della pubblica amministrazione. Quando gli enti locali e le istituzioni inizieranno a porsi questa domanda, la Pa inizierà concretamente ad ambire al bene comune, favorendo così la libera iniziativa delle persone e le proposte costruttive della comunità.