Caro direttore,
è uno strano periodo quello che sta attraversando la politica italiana. E non solo. Il fatto che esista una generale convinzione popolare di impotenza della politica nelle grandi decisioni, che riguardano l’organizzazione futura delle società, e che il crollo delle ideologie abbia alla fine compromesso qualsiasi credibile visione di progetto sociale, offre l’idea di una politica a scarto ridotto, che deve sottomettersi a interessi più forti, come quelli dell’economia finanziaria, o trovare compromessi che mortificano la “vocazione”, così diceva Max Weber, di cercare le soluzioni per una convivenza di civiltà democratica.



Si sente spesso dire che le persone siano alla ricerca di un’alternativa credibile. In realtà, soprattutto in Italia, sembra che “l’ultimo arrivato”, quello che irrompe sulla scena, sia una sorta di sofferta scoperta per rimediare alla delusione provocata dalla penultima entrata sul palcoscenico.



Con tutto il rispetto dovuto, l’uscita in politica nazionale di Stefano Parisi, con la recente due giorni a Milano “Megawatt. Energie per l’Italia”, non si discosta da questa immagine di “speranza disperata”, ma sostanzialmente di subalternità e di impossibilità di una autentica svolta che rimetta la politica al posto che le dovrebbe competere.

C’è un fatto in più che appare poi spiacevole nella vicenda di Parisi. Sconfitto con onore alle comunali di Milano, ma pur sempre sconfitto nel cuore della capitale di quello che è stato sbrigativamente chiamato centrodestra italiano, Stefano Parisi, che ha alle spalle esperienze politiche, di grande amministrazione statale e di imprenditore privato, sembra che debba, con questa sua performance milanese, sottoporsi a una sorta di “casting” che il vecchio e convalescente leader del centrodestra, Silvio Berlusconi, sta preparando per il suo ritorno in politica, in attesa di un “successore” che in realtà, forse, non ha mai veramente voluto.



Insomma, una sorta di “provino” di fronte al potenziale elettorato, a cui si sono già sottoposti altri protagonisti del quartier generale del vecchio centrodestra, spaccato in diversi tronconi e attraversato non da contrapposizioni di linea politica, ma da vicende personali e da confuse scelte contraddittorie.

Il vecchio centrodestra che nacque nel 1994, a cui contribuirono in tanti, aveva una funzione soprattutto di difesa anche coraggiosa rispetto al “riciclaggio”, confuso, settario e anche giudiziario, di una sinistra travolta dalla storia, condotta allora da Achille Occhetto e da alcuni suoi pretoriani cresciuti all’ombra del togliattismo rimasticato in salsa para-liberista. Un’autentica comica, come quella dell’Ulivo mondiale.

Ma dal 1994 a oggi, pur considerando tutte le difficoltà incontrate dal centrodestra, da quel blocco sociale che sembrava l’erede naturale del “pentapartito” della “prima repubblica” e si contrapponeva alla grande ammucchiata generica a sinistra, non è stato prodotto mai nulla di politicamente credibile, ma solo slogan e parole d’ordine che hanno contribuito ad accrescere la confusione che sta attraversando l’Italia da un quarto di secolo. C’è mai stato un congresso, o un’assemblea assimilabile a una discussione congressuale, che definisse la famosa promessa berlusconiana della “rivoluzione liberale” o del “partito liberale” di massa? 

Dispiace dirlo, ma la convention di Stefano Parisi non si discosta da questa linea ormai storica. Come un riflesso condizionato Parisi inserisce il termine “liberalpopolare” ed elenca una serie di problemi che sono al centro dell’attenzione di tutti da molti anni, ma vengono sempre elencati, mai affrontati con una proposta di concreta risoluzione. Una volta che si mettono in fila la centralità della famiglia, la libertà di educazione, gli investimenti nella formazione dei giovani, l’incoraggiamento dell’iniziativa privata e via dicendo, che cosa si fa e che cosa si ottiene? Politica o un incoraggiamento generico a sottolineare dei problemi che sono sotto gli occhi di tutti da anni e anni?

Oggi il problema da affrontare per un partito che si propone come grande alternativa è quello di scegliere tra un capitalismo finanziario che ha provocato una delle più grandi crisi economiche di tutti i tempi o il ritorno a un capitalismo basato sull’economia reale, che possa essere corretto al momento giusto, nel suo passaggio di distruzione-creazione, quella che ne ha scandito i grandi traguardi raggiunti nel dopoguerra, sia con il welfare state europeo sia con la great society americana.

Sembra che questo problema centrale venga sempre evitato da tutti i protagonisti del centrodestra. Il blocco sociale che votò centrodestra nel 1994 era legato a un’economia “mista”, come si diceva allora, e non aveva vocazioni thatcheriane o reaganiane. E non dovrebbe di certo avere queste nostalgie.

La grande concretezza di quell’Italia, che era cresciuta da economia agricola-industriale fino a essere una protagonista delle più grandi potenze economiche, si basava su questa specificità di economia mista, di difesa del suo tessuto industriale che viveva di sinergia tra una programmazione di grande industria statale e centinaia di migliaia di imprenditori privati di grande eccellenza, anche se di piccole dimensioni. Solo una falsa modernità ha portato allo sbandamento e all’attuale stagnazione. E il centrodestra non si è mai opposto a questa deriva.

Che cosa pensa di tutto questo il nuovo candidato Parisi? Da quanto si apprende dalla sua convention, quasi nulla. Il problema sembra quello di distinguersi e nello stesso tempo di trovare un accordo con le “sparate” di Matteo Salvini e con gli umori di altri leader di questo mondo un po’ variopinto, che in fondo partecipa al triste carnevale italiano con una sinistra allo sbando e la grande deriva antipolitica grillina.

Senza alcun rancore, ma in questo parapiglia italiano anche Stefano Parisi appare come una comparsa che ha già perso.