Caro direttore,
l’alternativa che molti cercano. Ecco cos’ha individuato la recente due giorni di “Megawatt. Energie per l’Italia”. La convention che ha aperto il cantiere di una piattaforma liberalpopolare, come continua a definirla Stefano Parisi, è stata innanzitutto questo: non un’operazione alla “c’eravamo tanto amati” per rimettere insieme i cocci di un polo (quello di centrodestra) che nei fatti non esiste più, ma l’input a un processo rigeneratore di una proposta politica complessiva.
Non contro i partiti, ma che sappia comprenderli per superarli e allargare l’offerta ai tanti milioni di italiani che non votano più. Del resto un primo assaggio di tutto questo l’abbiamo avuto proprio con le recenti elezioni amministrative in cui Stefano Parisi ha sfiorato la vittoria a Milano, recuperando da solo 40mila voti in più della somma delle liste a suo sostegno. E questo già lo rende diverso da tutte le esperienze di rinnovamento del cosiddetto centrodestra che lo hanno preceduto: Parisi si è già confrontato col corpo elettorale. Ed è piaciuto.
La sua proposta si è mostrata altamente competitiva con quella del centrosinistra che, non dimentichiamolo, ha comunque perso cinque municipi su nove a vantaggio proprio della coalizione messa in piedi da quello che oggi è il capo dell’opposizione a Palazzo Marino. Quella di Megawatt, dunque, non è stata l’ennesima operazione autoreferenziale degli addetti ai lavori. Non nasce dal “palazzo”. Nasce da un’esperienza che, sebbene ancora embrionale, ha già avuto un gradimento da parte degli elettori.
Nella due giorni di Megawatt si è fatto un passaggio in più: si è data voce a quella parte di società che ha da dire ed è pure in cerca di un interlocutore politico credibile e serio. Ha definito il terreno di confronto disegnando il profilo ideale di quella che dev’essere una proposta liberalpopolare: centralità della famiglia, libertà d’educazione, investimenti nella formazione dei giovani (sia quella universitaria che quella continua all’interno del mondo del lavoro, per garantire l’occupabilità della persona), principio di sussidiarietà e incoraggiamento dell’iniziativa privata (dalle politiche sociali alle imprese economiche), federalismo fiscale legato alla responsabilizzazione degli amministratori locali e alla diminuzione della spesa pubblica, una giustizia più giusta ed efficiente (con un’attenzione alla condizione delle carceri), governo ragionato di un fenomeno come quello dell’immigrazione ed Europa come opportunità di crescita per la comunità nazionale (“tagliando le gambe” tanto a chi chiede flessibilità a Bruxelles per finanziare nuova spesa pubblica quanto a chi straparla di uscire dall’euro).
Non ci sono già proposte puntuali e preconfezionate, perché si è preferito gettare le basi e si sono individuate le direttrici su cui costruire un programma che abbia l’ambizione di governare il Paese.
Già, il governo. Questa è la differenza che fa Parisi nell’area politica che è chiamato a rigenerare: governare. All’ex manager non basta sommare le sigle, trovare degli slogan e raccattare voti: lui vuole trovare delle soluzioni credibili e attuabili ai problemi con cui il sistema Paese fa i conti ormai da decenni e quelli posti dalle nuove sfide epocali. Per questo ha aperto il suo intervento conclusivo di sabato scorso dicendo: “Dobbiamo studiare”. Non proprio le parole di uno che scalpita per aver consenso facile e ammazzare poi i “nemici”. Interni ed esterni.
L’altra differenza la fa nel modo di concepire l’impegno in politica: non come un leader che attraverso i media parla direttamente agli individui scavalcando le comunità. “I corpi intermedi – ha detto Parisi – sono importanti e con loro bisogna parlare. Non si può parlare solo in tv o davanti alla telecamera, perché si perde il contatto con la realtà”.
E i corpi intermedi, che vivono ogni giorno a contatto con le persone e i loro bisogni, aiutano proprio chi governa a comprendere la realtà di un popolo. Ma per questo c’è bisogno anche del cambiamento di mentalità da parte di chi rappresenta, per esempio, i lavoratori: “Perché parlano non per sé stessi, ma per i loro iscritti”. E poi l’affondo: chiunque ha una famiglia ed esce di casa per lavorare in qualche modo fa politica. Anche “chi si occupa del proprio quartiere, attraverso un comitato che ripulisce i muri dai graffiti; chi si occupa degli handicappati”: insomma chiunque viva le relazioni nel proprio ambiente fa politica. E i partiti hanno bisogno di “aprirsi” (sì, Parisi ha usato questo verbo) a questa realtà di uomini e donne. Altrimenti muoiono e non intercettano più gli interessi di nessuno. E l’astensionismo e la disaffezione crescono.
Questa è la sfida che ha davanti a sé Stefano Parisi. E con lui quelli che si sono riconosciuti nell’esperienza positiva delle ultime amministrative milanesi. Ben più ardua che la mera rottamazione di una classe dirigente. O la battaglia per la successione a una leadership.