Ora, sono solo nel mezzo dei vivi, come il ramo nudo, il cui rumore secco fa paura al vento della sera. Ma il mio cuore è lieto come il nido che si ricorda e come la terra che spera sotto la neve. Perché io so che tutte le cose stanno dove devono stare e vanno dove devono andare: nel luogo assegnato da una sapienza che (il Cielo ne sia lodato!) non è la nostra”.



Questo è il finale del Miguel Mañara (opera teatrale del 1912 dello scrittore lituano emigrato in Francia Oscar Vladislas Milosz); l’opera, in sei quadri, come le sacre rappresentazioni medievali, si svolge dal banchetto del primo quadro, in cui il cavaliere Miguel esprime tutta la sua noia e insoddisfazione per le conquiste amorose, al giardino in cui dialoga con la giovane Girolama e nel cui rapporto Miguel capisce che l’amore è gratuità e non possesso. Ma Girolama muore e gli “spiriti della terra”, nel terzo quadro, sembrano suggerire a Miguel che la sua ricerca di un amore vero è pura illusione. Mañara non cede alla tentazione: scopre in Dio l’oggetto vero di ogni amore e chiede di entrare in convento (quarto quadro: dialogo con l’abate); lì il suo amore diventerà così puro da essere capace di miracolo (quinto quadro: la guarigione dello storpio di fronte alla cattedrale di Siviglia). L’ultimo quadro è il compimento della vicenda di Miguel, la sua morte, vista come definitiva immedesimazione con Cristo, ultimo compimento del proprio desiderio di amore.



Nello stesso anno 1912 si pubblicano, sempre in Francia, L’annuncio a Maria di Paul Claudel e la prima stesura del testo di Charles Péguy L’arazzo di Santa Genoveffa e di Giovanna d’Arco. Anno mirabilis, notava il poeta Davide Rondoni. Si pubblicano tre testi così cari alla vicenda personale ed educativa di don Luigi Giussani, servo di Dio, per il quale in essi si evidenziano i tratti più profondi e potenti dell’esperienza cristiana, come verità dell’amore, come vocazione e come compito nel mondo.

Milosz porta in scena un personaggio storico, Miguel Mañara Vicentelo de Leca di Siviglia (1627-1679) che Papa Giovanni Paolo II proclamò Venerabile nel 1985 e di cui nel Mistero in sei quadri l’autore segue i passi principali, la storia di un’umanità compiuta. Il testo attualizza una figura umana che nella giovinezza sembra oggi dominante, per la ricerca di un “perenne divertimento”. Eppure la sua traiettoria si compie in “una vecchiaia innamorata della tomba… che conosce il giusto peso delle cose”, che ama la vita poiché ama Colui che l’ha fatta. E tale riconoscimento è il frutto di un’esistenza consumata nell’adesione drammatica all’oggetto vero del proprio desiderio umano. Il sì di Miguel a Cristo, nella prossimità della morte, è il gesto di un uomo che aderisce come intelligenza e come cuore a quel Mistero che fa tutte le cose e dal quale ad ogni istante la nostra libertà può distrarsi, o divergere, nell’inseguire l’apparente splendore delle cose stesse. Qui sta la grande differenza tra il Miguel Mañara e i Don Giovanni che l’hanno preceduto: mentre Miguel termina la vita nella pace di un amore realizzato perché vissuto nella verità, tutti gli altri finivano nell’inferno: la statua del padre di una delle donne circuite da Don Giovanni, il Commendatore, prende vita, cerca di convincere Don Giovanni a pentirsi e a cambiare comportamento e, al suo rifiuto, lo trascina negli inferi.



Miguel Mañara invece è il vero compimento del Don Giovanni, perché quanto cercava il Don Giovanni della storia e del teatro, della realtà e del mito, è finalmente conosciuto ed amato da Miguel. L’amore umano ha trovato l’oggetto adeguato alla propria natura, al proprio desiderio.

L’uomo è desiderio di infinito, perché desiderio (come indica la stessa etimologia latina, de-sidera) esprime la tensione umana alle stelle (sidera), cioè a qualcosa di infinito ed eterno che compia la naturale mancanza del cuore umano, quella ferita di cui l’uomo, se è vero, fa esperienza.

Come insegna tutta la tradizione cristiana, il desiderio più profondo, costitutivo dell’uomo, è quello di vedere Dio (desiderium naturale videndi Deum). Non a caso san Bernardo parla della carità come l’unico modo che l’uomo ha di conoscere e vedere Dio, perché nella carità come apertura gratuita all’Essere l’uomo è più prossimo all’imitazione di Dio che è misericordia.

La tradizione spirituale medioevale distingueva tra amor benevolentiae, quel sentimento che vuole il bene dell’oggetto amato per l’oggetto amato in se stesso, e l’amor concupiscentiae, l’amore del piacere in sé e per sé, l’amore carnale, l’amor proprio.

La storia di Miguel Mañara di Milosz è dunque la rappresentazione del passaggio dall’amor proprio all’amore vero di sé, quale l’esperienza cristiana propone.

Don Giovanni è un modello, un archetipo della cultura europea, come possono esserlo Ulisse o Amleto o Faust. Il suo mito si incarna tuttavia in forma teatrale soltanto nell’epoca moderna. Nel 1630 Tirso da Molina, frate mercedario, pubblica anonimamente la storia di un cavaliere che circuisce l’onore di numerose fanciulle, fuggendo tra mille peripezie dalla Spagna al Regno di Napoli per poi tornare nuovamente a Siviglia. Come già in un’opera analoga (del 1615) di un gesuita austriaco, la commedia si conclude con la morte dell’eroe, che “in quanto rappresentante della colpa teologica non può essere liquidato da mano mortale: deve essere ucciso dal Commendatore, perché il Commendatore è stato ucciso da Don Giovanni”. (Giovanni Macchia).

Nel dramma dello spagnolo come nelle rappresentazioni che con gran fortuna i comici dell’arte italiani fanno conoscere anche in Francia, prevale il gusto della beffa, del travestimento, domina più il gusto del gioco che neanche quello della conquista o del possesso; nel mondo di Don Giovanni, almeno fino a quando non va all’inferno, non c’è posto per l’al di là, per lui esiste solo la terra con le sue delizie e le occasioni di piacere.

Il dramma barocco di Tirso de Molina, dove il burlador delle donne, della morte e di Dio veniva allegoricamente castigato, diviene un dramma intellettuale, la rappresentazione della trasgressione. Con Molière (1665), invece, Don Giovanni incarna quella figura d’uomo tipica della cultura illuminista: il libertino. Tale rappresentazione del mito del Don Giovanni è quella dominante nella cultura oggi; non a caso si assiste ad una riproposizione del libertinismo, in forme ormai di massa (il film Le relazioni pericolose, dal romanzo di Laclos, rappresenta il corrispondente femminile del Don Giovanni). Il modello d’uomo proposto è quello del seduttore, un uomo senza relazioni e perciò facilmente omologabile dal potere. Come afferma il filosofo A. Del Noce, “è come se l’ateismo compisse un ciclo, tornando alle posizioni originarie; in declino l’ateismo rivoluzionario, si è tornati all’ateismo conservatore-libertino, che faceva coincidere la dissacrazione radicale (quindi l’illimitata libertà sessuale) con la negazione dello spirito rivoluzionario”.

Sarà con W.A. Mozart (1787) che il mito di Don Giovanni ritrova nuova vitalità; il musicista ne fa il grande dramma della sensualità. Ma il desiderio insoddisfatto è il destino di quest’eroe (come nota Jaques Lacan, il grande psicanalista francese) che persegue l’appagamento attraverso l’illimitata sequela delle insoddisfazioni. Il volto tragico dell’amore–passione, che cerca continuamente il piacere effimero dei sensi, è proprio la morte; questa sovrasta fin dall’inizio dell’opera di Mozart la scena; come un fantasma shakespeariano, il Commendatore incombe su Don Giovanni (Mozart secondo i critici aveva presente l’Amleto, quel segno della giustizia divina che era in quell’opera l’ombra del padre morto). È questo senso tragico che determina la nota dominante dell’opera.

Secondo Riccardo Muti (direttore, nel 1987, della messa in scena dell’opera alla Scala) “il librettista, Da Ponte, ha voluto scrivere un dramma giocoso, forse anche per ragioni commerciali. È la musica di Mozart ad orientare il testo in senso tragico. Con Don Giovanni egli spinge il discorso armonico a confini inauditi. Penso non sia un caso che Mozart impianti l’opera in Re minore come il Requiem, che è la tonalità della morte”.

Questa complessità dell’opera mozartiana apre alla profonda lettura romantica del mito. Per cui secondo T. Hoffmann (1813) Don Giovanni cercò attraverso l’amore di realizzare sulla terra le promesse celesti che portiamo iscritte in fondo all’anima. Credendosi sempre ingannato nella sua scelta e sperando sempre di raggiungere l’ideale che perseguiva, Don Giovanni si trovò infine schiacciato dai piaceri; la conquista delle donne diventò audace insulto alla natura umana e a Dio.

Per S. Kierkegaard Don Giovanni “è l’eroe estetico che vive tutto nell’attimo: vedere e amare sono per lui tutt’uno, tutto è questione di un momento e il momento si ripete all’infinito. Mentre l’amore psichico dura nel tempo, il desiderio sensuale nel tempo si dissolve. Egli è il seduttore sempre infedele, che non ama una donna ma la donna, e cioè sempre tutte le donne. Il suo amore è solo sensuale e non psichico come l’amore greco e quello cavalleresco”. Simbolo di questa dimensione è per il filosofo danese proprio la musica di Mozart, per la sua essenza dionisiaca, demoniaca, per la sua gioia di vivere secondo un’assoluta indifferenza etica.

Soltanto allora col Miguel Mañara il mito del Don Giovanni trova il proprio compimento. Ritorna il tema dell’amore, secondo la sua dinamica vera: dall’amor proprio acuto e violento, che si manifesta in tutti i campi della vita umana, attraverso la grazia di un amore reale, si passa alla perfetta e profonda coscienza di sé, all’amore di sé. È l’esperienza cui le parole di don Ferdinando avevano aperto Miguel: l’incontro con Girolama (figlia di un vecchio amico del padre del giovane) rappresenta ai suoi occhi una realtà così assolutamente nuova che sente di non poter far sua (“la vostra voce mi fa paura…”), ma sente altresì di non poterla negare senza rinnegarsi.

Proprio nell’incontro l’uomo si scopre come desiderio e domanda d’altro da sé, ricerca di compimento. La modalità di questo compimento è appunto duplice: o il dominio, il possesso che riduce la realtà ad oggetto, misura della propria voglia, o l’apertura (“Si può benissimo amare in questo mondo… senza aver voglia di uccidere il proprio caro amore” dice Girolama). Nel volto di Girolama si rivela per Miguel quel centro che rompe l’ovvietà delle cose.

L’altro acquista un’aura sacra, che invita a cambiare o (come già per Mosè la vista del roveto ardente, da sempre nella tradizione mistica immagine dell’amore divino che brucia, ma non consuma) ad uscire da sé ed a ritrovare la forma profonda della propria identità. “Senza tu non c’è io”, dice il mistico ebraico Martin Buber.

Miguel passa dunque dalla passione all’affezione. La passione amorosa indica l’inganno del nulla, una ricerca di Dio che si stravolge nel rifiuto di Dio.

L’affezione (l’amor benevolentiae) è l’amore che supera continuamente il livello sentimentale e possessivo del rapporto (in cui ciò che domina è l’insieme di relazioni ed emozioni che l’altro suscita), è amore che afferma un bene oggettivo, il destino, cosicché “l’altro è amato non tanto per le sue qualità ma per il mistero che è e per il destino di pienezza di essere e di bene verso il quale si è attratti insieme” (Karol Wojtyla).

Miguel con Girolama vive un rapporto non di possesso bensì di gratuità, l’adesione ad una realtà che non è più proiezione del suo io, ma segno d’altro e strada per raggiungerlo.

Miguel trova finalmente nell’alterità, nella percezione della diversità dell’altro, una novità; vivendo le cose senza attribuir loro valore assoluto o senza ridurle a sé, ritrova lo stupore della promessa che le cose contengono, evocazione d’una bellezza, d’una bontà, d’un bene struggente.

Girolama dopo pochi mesi di matrimonio muore. Il cammino di Miguel riprende: vista una bellezza, una verità così grande, non può più tornare indietro. La sua disperazione, il dolore per l’assenza della donna amata, diviene consapevolezza che il segno era reale, ma contingente. Il dolore diviene grido che apre al terzo passaggio dell’opera, la scoperta di Dio, fonte e termine dell’amore, origine e meta della domanda umana.

Davanti all’abate, Miguel scopre che Dio non è solo artefice del proprio svelarsi, ma che Egli stesso stabilisce tutti i passi attraverso i quali l’uomo possa riconoscerlo. Perfino il dolore può diventare orgoglio, come la penitenza stessa se non è riconoscimento dell’oggettività di Dio, che passa attraverso la figura dell’abate, la regola monastica e la preghiera della Chiesa. Ed è proprio nella dipendenza dall’abate che Miguel prende coscienza del cammino vissuto.

Accadrà così a Miguel l’ultimo segno della presenza di Dio in lui: il miracolo della guarigione di un mendicante, segno dell’imitazione di Cristo, che è misericordia verso l’uomo.

A Dio che lo chiama Miguel potrà dire “Eccomi”; ogni promessa si compirà, la pace piena coinciderà con la contemplazione del volto di Cristo, cui tutti i volti degli uomini rimandano e anelano.