La condanna a 13 anni e due mesi di reclusione dell’ex sindaco di Riace, Domenico Lucano, nel processo “Xenia”, celebrato davanti al Tribunale di Locri, sui presunti illeciti nella gestione dei migranti, ha creato sconcerto in gran parte dei calabresi ed esultanza in pochi dei suoi avversari nelle elezioni regionali di domenica e lunedì prossimi in Calabria. Sì, perché Domenico Lucano detto Mimmo è anche tra i candidati al consiglio regionale: è capolista in tutte e tre le circoscrizioni di “Un’altra Calabria è possibile”, una delle liste a sostegno di Luigi de Magistris. Per l’ex magistrato è una sorta di pena del contrappasso: proprio lui che da magistrato guardò soprattutto a presunte reti di potere, dimenticando di accertare i reati, e le cui inchieste furono utilizzate, da lui e da altri, per perseguire obiettivi politici, tesi alla distruzione degli avversari e non all’asserita legalità. Ma torniamo a Lucano.
L’ex sindaco di Riace era imputato di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina; l’accusa aveva chiesto una condanna a sei anni, il Tribunale ha condannato per più del doppio delle richieste dell’accusa. I reati contestati sono quasi tutti quelli tipici dei pubblici amministratori, con l’eccezione della corruzione, che nel caso del sindaco del “paese degli africani” sarebbe stato davvero difficile solo ipotizzare. In più, ci sono la violazione della sempre discussa, ma mai abrogata né sostanzialmente modificata – nemmeno dai governi di sinistra – legge Bossi-Fini, ed il contorno del reato associativo, reato spesso astratto, ma che carica pesantemente le condanne.
Mimmo Lucano, nella sua azione amministrativa, ha certamente commesso degli errori. Ha, per certi aspetti, confuso forse il Comune con una “comune” di sessantottina memoria, ha fatto del bene – nei confronti di disperati abbandonati dagli uomini e dallo Stato – non seguendo i rigidi protocolli burocratici ed amministrativi nella gestione dei fondi pubblici. Lucano è stato probabilmente uno “scioperato”, ha badato alla sostanza e non alla forma ma, anche nell’opinione di tanti dei suoi osteggiatori ed avversari, non è mai stato un delinquente.
La sentenza che ieri lo ha condannato si sgretolerà probabilmente nei prossimi gradi di giudizio. Ma, ha affermato lo stesso Mimmo Lucano, “sarò macchiato per sempre per colpe che non ho commesso”, e ciò sarà vero, in Calabria più che altrove, quali che saranno gli esiti dei futuri gradi di giudizio.
Dalla vicenda di questa condanna in primo grado di Lucano ne esce macchiata e ferita, ancora una volta, soprattutto la magistratura. La pena inflitta all’ex sindaco è più elevata di quella nei confronti di Luca Traini che, il 3 febbraio 2018 a Macerata, sparò a casaccio su alcuni immigrati, ferendone sei, con qualche morto che poteva scapparci e con una condanna a 12 anni. È la mentalità, ormai diffusa in Italia, che i reati dei “colletti bianchi”, quelli nei confronti della Pubblica amministrazione, siano più gravi di quelli contro le persone. È una sentenza sproporzionata nelle dimensioni e probabilmente in gran parte sbagliata nel merito.
L’eventuale elezione di Mimmo Lucano nelle elezioni del 5-6 ottobre in Calabria, e la sua conseguente probabile sospensione da consigliere regionale ai sensi della Legge Severino, aprirebbe un’ulteriore discussione sulla congruenza di una norma che punisce la rappresentanza democraticamente eletta a seguito di una condanna non definitiva.
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